by ALBERTO MELLONI, la Repubblica | 11 Febbraio 2016 10:48
Debrà Libanòs è un nome difficile da fissare nella memoria del nostro paese. Questa città monastica, nel lembo nord dell’altipiano etiope dello Scioà, di fronte alle lande incontaminate del Mens, fu oggetto di una grande strage di cristiani fra il 21 e il 29 maggio 1937. Le fonti contano un minimo di quattrocento vittime fra i religiosi, che salgono a millecinquecento, contando i fedeli. Un eccidio, comunque: che si potrebbe presumere fissato nella memoria di tutti, come quelli delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema. Invece no. Debrà Libanòs — il più grande massacro di una comunità religiosa d’Africa — resta un nome sconosciuto a troppi.
Ma non è una “scoperta” recente, venuta a tacitare il negazionismo strisciante di chi proclama, forse per incoraggiare nuove avventure, la necessità di liberare l’Occidente da un senso di colpa che non ha e da quella diffidenza verso la guerra che si chiama (si chiamava?) Europa. Fin dal 1965 Angelo Del Boca aveva studiato anche questo frammento della “guerra di sterminio” dell’Italia fascista in Africa orientale, denunciato a suo tempo dagli etiopi. Negli ultimi trent’anni Michel Perret, Lucia Ceci, Degife Gabre-Tsadik hanno aggiunto fonti, che Ian Campbell ha ripreso in un volume del 2014, a cui Nicola Labanca ha dato un aiuto e che Del Boca ha prefato. Un letterato, Luciano Marrocu, ne ha fatto impudicamente lo sfondo di un romanzo giallo. Niente da fare. Debrà Libanòs resta il nome di un delitto invisibile.
La strage viene pianificata all’indomani dell’attentato del 19 febbraio a Rodolfo Graziani, viceré dell’Africa orientale italiana. Ad Addis Abeba, due resistenti di origine eritrea, si intrufolano alla festa per la nascita del primogenito di Umberto di Savoia: lanciano granate, fuggono. Sette morti, cinquanta feriti, fra cui Graziani.
In città si scatena una rappresaglia feroce. Il corrispondente del Corriere della sera, Ciro Poggiali, annota inorridito nel suo diario le uccisioni a sprangate, i roghi che bruciano gli occupanti dei tucul e le chiese, le fucilazioni di religiosi copti, gli sgozzamenti — il tutto ad opera di persone a lui note e “normali”.
Se l’Africa è il luogo di collaudo del razzismo italiano, questo si mostra lì in tutto il suo sanguinario vitalismo. Le vittime si contano a migliaia: 6 mila dicono i giornali inglesi, 30 mila gli etiopi. Ma a Graziani non basta: egli resta convinto che nella città monastica di Debrà Libanòs si debbano punire i mandanti con una strage esemplare.
La mattanza viene fissata a maggio, attorno alla grande festa di san Mikael. La gestirà il generale Pietro Maletti, che fa annunciare la visita al monastero della seconda autorità della chiesa copta, l’“ecceghiè” Tekle Ghiorghis, per attirare in trappola i monaci dei romitori e i pellegrini. Il generale ispeziona a poche ore dall’inizio delle operazioni un sito vicino: il precipizio che dalla piana di Laga Wolde scende nel letto d’un torrente, il Fincha Wenz, che sembra adatto a quel che ha in mente.
Il 18 maggio Maletti isola il monastero: chiude in chiesa i pellegrini e i monaci che trova rastrellando la città monastica. Il vicepriore (lo “tsabate”) Gabre Mariam mette in salvo i suoi discepoli e i bambini nella cripta di Maskel Beit. Un eremita, Abba Gebre Gyiorgis, riceve in sogno la visita di un angelo che gli dice di fuggire: e fugge. Gli altri monaci e fedeli — «circa mille» telegrafa Maletti — vengono imprigionati in parte nella chiesa maggiore in parte nella vicina località di Chagel. Per due volte viene la notte, e poi il giorno.
Il mattino del 20 maggio inizia la mattanza, senza che gli altri prigionieri se ne rendano conto. Vengono uccisi per primi i disabili e gli ammalati, i cui cadaveri sono buttati nel fiume Gonjit. Al mattino del 21 alcuni camion iniziano a trasferire i prigionieri a Laga Wolde. Lì vengono bendati e uccisi: gli ascari controllano che nessuno si avvicini e sparano all’orecchio dei martiri per finirli. Poi li si fa rotolare nel dirupo.
Chi sale sui camion dopo i primi viaggi qualcosa capisce. I monaci copti portano alla cinta un piccolo salterio, come simbolo e reliquia della millenaria preghiera di una chiesa dalle origini apostoliche. Trovarne alcuni sul fondo dei camion, insieme alle croci lascia intendere il peggio. Che arriva inesorabile per tutti. I camion fanno 39 volte la spola: se portano 30 persone, sono 1200 morti; se ne stipano 40, sono 1600 esecuzioni. Nel telegramma n. 25876 di quel giorno, Graziani si attribuisce il merito di aver «fatto passare per le armi» 296 monaci compreso il vicepriore e 23 complici: il resto non lo conta neppure.
Il sabato 22 i camion portano le ultime 430 persone verso Debrà Berhan, forse per dividere l’usura psicologica del massacro fra diversi reparti di ascari e diversi soldati o ufficiali italiani. Trenta giovanetti (dei novizi si direbbe nel lessico cattolico) vengono separati dal gruppo, ma non per un gesto di pietà: andranno a finire nel famigerato campo di concentramento di Danane, nella Somalia italiana, dove la metà dei detenuti vengono uccisi dalla denutrizione. Gli altri quattrocento deportati di Debrà Libanòs sono portati, mercoledì 26, a Guassa e lì ammazzati: di 129 diaconi si tiene il conto nello scrupoloso telegramma n. 27136 del viceré. Degli altri — insegnanti, fedeli, operai subalterni — nulla si dice: vite irrilevanti al censimento di una strage che vuol rasare via il monastero dalla storia. Per questo, per non lasciare nulla di incompiuto, il 29 maggio tre monaci di Debrà Libanòs imprigionati in precedenza ad Addis Abeba vengono fucilati, mentre coloro che lo “tsabate” aveva nascosto a Maskel Beit, sono morti di fame e di sete nel grande silenzio che avvolge il santuario.
A cose fatte Maletti si vanta di un’azione «opportuna e salutare »; e Graziani telegrafa a Roma: «Del convento di Debrà Libanòs non rimane più traccia». Ma non è così: e non perché il suo successore cerchi di recuperare credito lasciando riprendere la vita monastica di Debrà Libanòs.
Rimane l’indelebile orrore che si tramanda a partire da quello straziante di chi sei mesi dopo prova ad andare a cercare la salma dei propri morti del monastero e deve desistere: sono ancora troppi gli strati dei cadaveri, ammassati lì, in attesa che le iene e gli avvoltoi li smozzichino, così da farli poi scivolare, brandello dopo brandello, verso il fiume.
Rimane la vita semplice e pura di monaci pastori ed eremiti: che tornano, col salterio alla cintola e il senso della fraternità monastica (il priore di Bose Enzo Bianchi è stato loro ospite e TV2000 di Paolo Ruffini sta realizzando un documentario).
Rimane un delitto che non costituisce un’inattesa impennata della ferocia di Graziani, ma fa parte del terrore nel quale la chiesa etiopica ha pagato un prezzo altissimo, col martirio di migliaia di cristiani e fra loro della stessa guida della chiesa, l’Abuna Petròs, torturato e ucciso dai fascisti (è come se i nazisti avessero portato Pio XII a via Tasso).
Un successore di Abuna Petròs, l’Abuna Paulos, patriarca della Chiesa “Tewahedo” ortodossa etiope, venne a Roma nel 2009 come delegato fraterno al sinodo per l’Africa: ricordò anche il martirio del suo predecessore nell’aula sinodale. Mi pare che nessuno nella Chiesa colse l’occasione per dire la parola che il patriarca aspettava e che globalallianceforethiopia. org chiede al papa. Neppure l’Italia colse l’occasione per gesti che mostrassero l’intenzione di prendere atto del dolore di un popolo e del martirio d’una chiesa: d’altronde non ha saputo nemmeno fermare lo sfregio di un monumento dedicato nel 2012 dal comune di Affile a Graziani, con tanto di prete reazionario benedicente, sul cui finanziamento la magistratura si pronuncia domani, in un procedimento che è una vergogna nazionale ridotta ad affare di Tar.
Prendere atto di quella strage è difficile. Il pressapochismo e la sottocultura che non vuol sentirsi dire che l’Europa è esattamente il “no” a tutto questo resisterà agli sforzi per conoscere e riconoscere quel massacro nel grande massacro coloniale. Ma proprio perché è più difficile è più necessario.
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