by GIULIANO FOSCHINI, la Repubblica | 16 Febbraio 2016 8:50
IL GRANDE EQUIVOCO IN sessanta righe, scritte in perfetto inglese. Una mail inviata a metà gennaio alla sua professoressa, Maha Abdelrahman, nella quale, preparando la sua tesi finale di marzo, Giulio Regeni raccontava cosa fosse accaduto nella riunione di sindacati dell’11 dicembre. «Un malcontento molto diffuso tra i lavoratori ma che fino a oggi stentava a prendere forme in iniziative concrete » scriveva Giulio proprio in quei giorni, il 14 gennaio, nella sua analisi sull’agenzia di stampa Nena News.
A condannare a morte Giulio potrebbe essere stata quindi la sua bravura. Le sue precise analisi accademiche sulla situazione sociale e accademica dell’Egitto potrebbero, infatti, essere finite sulle scrivania sbagliate: quelle, per esempio, di qualche servizio di sicurezza occidentale. E le comunicazioni, forse intercettate dagli egiziani, scambiate per un lavoro che invece non erano: non quelle di un ricercatore universitario ma di un’analista di intelligence. È questa la pista principale sulla quale, ormai, lavorano gli investigatori italiani al Cairo e a Roma. Non a caso il pm Sergio Colaiocco (che ieri ha dato di mandato di analizzare mail, contatti e chat Skype di circa 30 persone) ha ascoltato nei giorni scorsi la professoressa Maha Abdelrahman tutor di Regeni alla Cambridge University. Che ha spiegato come la ricerca di Giulio fosse diventata «partecipata», prevedeva cioè una partecipazione attiva alla vita degli organismi di cui doveva occuparsi. Di questo si è trovato traccia in due mail che Giulio ha inviato nelle settimane prima di sparire alla Abelarhman nelle quali appunto la aggiornava sul suo lavoro in vista della tesi finale di marzo.
D’altronde, Regeni da tempo lavorava come analista. Tant’è che a Oxford – come ha raccontato ieri il sito del Fatto quotidiano – dal 2013 al 2014 aveva avuto un contratto di consulenza con la Oxford Analytica, una compagnia specializzata in “analisi globale” per multinazionali, istituti finanziari e governi. Ed è innegabile che, in Egitto come in tutto il Medio Oriente, le università occidentali vengano viste come possibili basi d’appoggio delle intelligence straniere. Così come risulta che alcune delle docenti di Regeni abbiano rapporti con grandi agenzia di sicurezza private.
Ieri, però, l’Egitto ha ribadito la sua completa estraneità al caso Regeni. In una comunicazione ufficiale ai nostri servizi di sicurezza, confermata poi dall’ambasciatore in Italia, hanno spiegato che «Regeni né la sera del 25 gennaio, né prima ne dopo è stato arrestato dagli apparati di sicurezza egiziani». Non è possibile dunque, dicono gli egiziani, che – come sostiene il super testimone – Giulio sia stato prelevato da due agenti in borghese – «uno gli guardava la borsa e l’altro i documenti» ha messo a verbale con gli investigatori italiani ed egiziani – mentre saliva sulla metropolitana. La ricostruzione di questa persona, un egiziano che conosceva Giulio, ha però molti punti deboli. Ma in ogni caso non potrà mai trovare una conferma o un smentita dai fatti: ci sono telecamere che riprendono il punto esatto nel quale Regeni potrebbe essere stato prelevato. Ma i nastri non ci sono più: venerdì i nostri investigatori sono stati sul posto per chiedere le registrazioni ma i titolari degli esercizi commerciali che hanno la videosorveglianza hanno spiegato che le registrazioni della sera del 25 non erano più disponibili. Cancellate. «Nessuno ce le ha chieste» hanno spiegato. Un punto a sfavore della collaborazione investigativa che il governo egiziano continua a sbandierare e che, comunque, conoscerà una risposta definitiva nelle prossime ore: tra giovedì e venerdì le autorità del Cairo hanno promesso che risponderanno all’elenco di richieste fatte dal pool di investigatori italiani. Sarà lì che si capirà se Giulio dovrà continuare ancora a morire.
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