I fantasmi della Libia sulla corsa di Hillary Fu lei a spingere Obama ai raid contro Gheddafi

by JO BECKER E SCOTT SHANE, la Repubblica | 29 Febbraio 2016 10:42

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NEW YORK Nel giorno del trionfo di Hillary Clinton, che ha travolto Bernie Sanders nelle primarie democratiche in South Carolina segnando la vittoria più netta fino ad ora, è il suo passato da segretario di Stato a finire sotto i riflettori: una lunga e dettagliata inchiesta del “New York Times” rivela il suo ruolo decisivo nel convincere uno scettico presidente Obama a intervenire in Libia contro il regime di Gheddafi. Una decisione che si rivelò pessima perché «la fuoriuscita del Colonnello lasciò la Libia come un paese fallito e un paradiso per i terroristi islamici»

UNA VOLTA passata la dogana all’aeroporto di Le Bourget, Mahmoud Jibril si avviò speditamente a Parigi. Il segretario di Stato americano Hillary Clinton lo stava aspettando da ore e di certo non avrebbe potuto annullare quell’incontro, che avrebbe potuto decidere di una nuova entrata in guerra dell’America.

Nelle convulse giornate della primavera araba, il colonnello Muammar Gheddafi aveva dovuto fronteggiare una furiosa rivolta di libici, determinati a porre fine al suo donchisciottesco governo che durava da 42 anni. Le forze del dittatore si stavano avvicinando a Bengasi, punto focale della ribellione, minacciando un bagno di sangue. Francia e Gran Bretagna esortavano gli Stati Uniti a unirsi a loro in una campagna militare volta a fermare le truppe del colonnello e anche la Lega Araba invocava un intervento. Il presidente Obama guardava con diffidenza a una nuova missione militare in un Paese musulmano, e anche i suoi consiglieri più esperti lo invitavano a tenersene fuori. Obama invece chiese a Hillary Clinton di incontrare Jibril, un leader dell’opposizione libica. Durante quell’incontro, che si tenne la notte del 14 marzo 2011, un funzionario dei vertici dell’amministrazione americana avrebbe avuto per la prima volta l’occasione di farsi un’idea su chi stesse chiedendo aiuto agli Stati Uniti.

Incontratisi all’interno della sua suite al Westin, Clinton e Jibril parlarono a lungo dell’evolversi della situazione militare in Libia. «Mi fece tutte le domande che si potessero immaginare», ricorda Jibril. Convincerla sarebbe stato fondamentale per persuadere Obama a unirsi agli alleati nel bombardare le forze di Gheddafi. Robert Gates, segretario della Difesa, dichiarò in seguito che fu proprio il parere della Clinton a convincere Obama e a produrre un responso “51 a 49”. Le conseguenze di quel voto sarebbero state più durature di quanto chiunque avrebbe immaginato e avrebbero trasformato la Libia in uno Stato fallito, un paradiso per i terroristi e un luogo dove le più terribili risposte alle domande di Hillary si sono materializzate.

Sin dai primi giorni del dibattito sulla Libia, la signora Clinton si è dimostrata una studiosa inarrestabile; leggeva enormi verbali di riunioni, invitava i suoi collaboratori a esprimere pareri contrari e studiava le controparti straniere. Era pragmatica e disposta a improvvisare pur di fare centro. Il suo comportamento dimostrava come di fronte a un dilemma di sicurezza nazionale o di politica estera Hillary era incline all’azione in contrasto con l’approccio più reticente di Obama.

UNA MINACCIA PER LA STABILITÀ

Oggi la Libia pone una minaccia sproporzionata alla sicurezza della regione, tanto da domandarsi se l’intervento, anziché scongiurare una catastrofe umanitaria, non abbia semplicemente contribuito a crearne una di diversa natura. Il saccheggio, durante l’intervento, dei vasti arsenali di armi del colonnello ha alimentato la guerra civile siriana, rafforzato gruppi terroristici e criminali dalla Nigeria al Sinai, e destabilizzato il Mali. Un crescente traffico di esseri umani ha indotto 250mila rifugiati a spingersi verso Nord e attraversare il Mediterraneo, e centinaia sono morti annegati. La guerra civile ha lasciato la Libia in mano a due governi rivali, ridotto intere città in macerie e prodotto oltre 4mila morti. Nel mezzo dei combattimenti, lo Stato islamico ha stabilito lungo la costa libica il suo più importante avamposto: un fortino dove ritirarsi mentre Siria e Iraq vengono bombardati. E mentre il Pentagono sostiene che l’esercito dell’Is conta tra 5mila e 6.500 combattenti, ed è in continua crescita, alcuni dei principali assistenti di Obama per la sicurezza nazionale sollecitano un secondo intervento militare americano in Libia.

L’INFLUENZA SU OBAMA

In Libia la signora Clinton ha avuto l’opportunità di sostenere un cambiamento epocale che aveva già travolto i leader di due Paesi vicini: Egitto e Tunisia. La Libia, con soli sei milioni di abitanti, nessuna divisione settaria e grandi scorte di petrolio, appariva come un caso facile e allettante. La descrizione fatta da Clinton di un fronte unito europeo-arabo influenzò moltissimo Obama. «Il presidente non avrebbe mai fatto questa cosa per conto proprio», afferma Benjamin J. Rhodes, vice consigliere per la sicurezza nazionale. Una volta deciso a intervenire, Obama interrogò i leader militari sull’efficacia di una no- fly zone.

E quando gli fu risposto che non sarebbe bastata a prevenire un massacro, il presidente ordinò al suo staff di redigere una più rigorosa risoluzione Onu. Il presidente chiese al Pentagono di servirsi delle risorse a sua disposizione per passare le redini dell’operazione agli alleati europei e arabi nel giro di dieci giorni. Una tattica che un assistente ha definito “condurre da dietro”. Obama tuttavia era inamovibile: la Libia non sarebbe diventata teatro di un’altra lunga guerra americana.

L’INCONTRO CON JIBRIL A ROMA

Jibril, giunto a Roma a maggio con il suo entourage di libici per vedere la signora Clinton, si aspettava un incontro di dieci minuti. Quel colloquio durò invece quasi un’ora. I leader dell’opposizione le avevano già prospettato un futuro in cui i partiti politici avrebbero partecipato a libere elezioni, la stampa avrebbe responsabilizzato i leader politici e i diritti delle donne sarebbero stati rispettati. Con il senno di poi, ha ammesso in un’intervista Jibril, si trattava di un “ideale utopico”. Stando ai testimoni di quell’incontro, Hillary Clinton era entusiasta e voleva discutere approfonditamente come poter trasformare quella visione in realtà.

L’UCCISIONE DI GHEDDAFI

La nuova era della nuova Libia fu inaugurata da un episodio cruento, mandato in onda in tutto il mondo. Il dittatore fu tirato fuori dalla fognatura dove si era rifugiato, venne malmenato da soldati ribelli deliranti, picchiato a sangue e sodomizzato con una baionetta. Un video poco chiaro girato con un telefonino mostra il volto butterato del colonnello Gheddafi, l’uomo che per quattro decenni aveva terrorizzato i libici, su cui era impressa un’espressione spaventata e frastornata. Di lì a poco sarebbe morto. Era l’ottobre del 2011. Le prime notizie della cattura e dell’uccisione del colonnello Gheddafi raggiunsero il segretario di Stato Hillary Clinton a Kabul, in Afghanistan, dove si era appena seduta per un’intervista televisiva. «Wow!», scrisse a un’assistente, prima di osservare che la notizia non era stata confermata. Hillary sembrava aspettare con impazienza la conclusione dell’intervento che aveva contribuito ad organizzare. E in un raro momento di spontaneità abbassando la guardia esclamò: «Venimmo, vedemmo, ed è morto!».

LA VISITA IN LIBIA

La stampa descrisse la breve visita compiuta in Libia dalla signora Clinton nell’ottobre del 2011 come un “giro d’onore”, ma si trattava di una definizione decisamente prematura. La visita richiese misure di sicurezza imponenti, con navi posizionate lungo la costa in caso si fosse resa necessaria un’evacuazione di emergenza. In realtà non si verificò alcun episodio di violenza, ma quel giorno le scene dei festeggiamenti nella capitale libica sottolinearono le divisioni del nuovo ordine. La signora Clinton si fece immortalare in un ospedale, un’università e negli uffici governativi accanto ai leader ad interim, istruiti in Occidente, e salutò l’avvento della democrazia. «Sono orgogliosa di trovarmi qui, sul suolo di una Libia libera», dichiarò a fianco di un raggiante Jibril. Ovunque andasse, però, Clinton s’imbatteva anche nell’altra faccia della ribellione: folle di combattenti armati di Kalashnikov — i thuwar, o “rivoluzionari”, come si autodefinivano — circondarono le auto del suo corteo, sgomitando per poter scorgere la personalità americana. Mentre la sua scorta seguiva quel pandemonio con i nervi a fior di pelle, Clinton rimase calma e impassibile.

L’ATTENTATO ALL’AMBASCIATORE

L’otto agosto del 2012, un mese dopo le elezioni, Stevens, l’ambasciatore americano, inviò a Washington un cablogramma intitolato “Le pistole di agosto” — un riferimento al titolo di un classico racconto della Prima guerra mondiale. Il cablogramma descriveva una Bengasi che passava «dalla trepidazione all’euforia e viceversa, mentre una serie di episodi violenti aveva segnato la scena politica ». Stevens metteva in guardia sulla possibilità di un «vuoto nella sicurezza». Nessun funzionario americano conosceva la Libia meglio di lui, che avrebbe pagato con la propria vita la determinazione ad osservare da vicino la realtà libica. A un mese dall’invio di quel cablogramma gli estremisti islamisti attaccarono la missione delle Nazioni Unite a Bengasi e Stevens fu uno dei quattro americani uccisi. Nell’assalto si sovrapposero le più preoccupanti tendenze del Paese: la debolezza del governo centrale, il disintegrarsi delle forze dell’ordine, l’ascesa dei militanti e mesi durante i quali Washington aveva rivolto alla Libia un’attenzione minima. I repubblicani sfruttarono quell’episodio inaugurando anni di inchiestesu Hillary Clinton. Eppure, negli ultimi mesi da lei trascorsi al dipartimento di Stato, la signora Clinton ha conosciuto un’ondata di popolarità, sostenuta da un meme che circolava su internet, chiamato “Messaggi da Hillary”. Mostrava una fotografia del segretario di Stato che da dietro delle lenti scure fissava il suo BlackBerry. Pochi sapevano che quell’immagine era stata scattata all’interno dell’aereo militare che la stava portando in Libia in quei giorni esaltati successivi alla caduta del dittatore.

( © 2016 New York Times News Service Traduzione di Marzia Porta)

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