Franco Grillini: “La rivoluzione è iniziata quando ho convinto l’operaio metalmeccanico”
Un po’ di gay pride, di orgoglio, suvvia. «C’è troppa delusione in giro. Non è certo la legge che abbiamo sognato. Ma guardiamoci indietro. Di porte pie ne abbiamo sfondate tante. In trent’anni abbiamo fatto una rivoluzione». Lo dice un padre dell’orgoglio omosessuale, Franco Grillini, primo leader di Arcigay, tra i fondatori nel 1982 del primo circolo omosex italiano, il Cassero di Bologna, poi primo deputato gay. Oggi, 61 anni, è impegnato in una battaglia personale contro un tumore, «che non esibisco e non nascondo, come è stata tutta la mia vita».
Le piace la legge sulle unioni civili, Grillini?
«Ho seguito dalla tribuna del Senato, scambiando messaggini con Monica Cirinnà, vecchia amica. Pessimo spettacolo, politicismi, bigotti e cattocomunisti in gara. Tutto ciò che di brutto ho visto in trentasei anni di battaglie è risorto su quei banchi».
Quindi, un fallimento?
«No. Un punto fermo. Incassare e ripartire. Il tutto-subito ci ha sempre fregati. La prima legge francese sui Pacs era molto peggiore di questa, e ora hanno il matrimonio gay. Si va avanti».
Parla come un patriarca del movimento… «Sono uno dei pochi sopravvissuti. Quando cominciai, il movimento era diviso in vari radicalismi. Al congresso di fondazione dell’Arcigay, nel 1985, la proposta di una battaglia per le unioni civili finì in minoranza, lo sapeva? Si figuri parlare di matrimonio, la famiglia borghese si abbatte non si cambia… Ed era anche giusto, dopo secoli di oppressione la prima cosa da liberare era il corpo, ma quanto alla battaglia per i diritti civili, be’, dovemmo cambiare per primi noi stessi».
Com’era, trent’anni fa?
«Incontri a porte chiuse, niente giornalisti, ci si vergognava. Per trovare il coraggio per fare il mio coming out ci misi quattro anni, e quel giorno restai chiuso in casa a guardare fisso il muro. Era l’82, non il medioevo».
C’era anche l’Aids.
«Che ammazzava i corpi e condannava le anime. Morivi e ti davano la colpa. Il cardinal Siri parlava di castigo di Dio. Ma fu quello a darci la forza. Collaboravamo con ospedali e medici, tirammo fuori umanità, dedizione, questo ci cambiò e ci aprì agli altri. Però: un funerale al giorno. Le racconto una cosa che in pubblico non riesco a dire. Stava morendo Dario, un amico carissimo. Mi chiamò, volle toccarmi gli occhi. Perché, mi disse, i tuoi occhi vedranno la vittoria dei nostri diritti».
Lo prese come un dovere politico?
«Lo era già. A Bologna c’era il “Circolo frocialista”, poi il Circolo 28 giugno, da lì nacque il Cassero. Era la città più propizia, con un Pci che dopo il ’77 cercava di non ripetere gli errori».
Quella mitica assemblea in una casa del popolo… Rudi operai e timidi gay…
«Toccò a me, un po’ professorino, spiegare gli obiettivi comuni di classe operaia e movimento omosessuale, sudavo freddo. Applausi tiepidini. Poi si alzò un metalmeccanico, “sono d’accordo col compagno busone”. Grande risata, crollò il muro».
Le poi ne fece una professione.
«Non me ne vergogno. Fare lobby per una causa è giusto, ma richiede tempo e dedizione. Io poi facevo già politica da dieci anni, nel Pdup, avevo il know- how. Ma non mi stesero il tappeto rosso. Nell’87 Occhetto mi volle in lista, ma non fui eletto. Alla Camera entrai solo nel 2001, con i Ds».
Primo onorevole gay.
«Primo onorevole gay dichiarato.
Del resto abbiamo avuto anche ministri e premier gay. Il primo giorno a Montecitorio ne individuai una settantina. Mi creda, io ho il gaydar, il radar gay. E quelli che non beccavo, venivano loro a confidarsi, “ho famiglia, non mi sputtanare, ma… hai l’indirizzo di qualche localino?”».
Era un esperto?
«Guardi, io sono la prova vivente che i gay, contrariamente a quanto dicono gli omofobi, non pensano sempre al sesso. Ho avuto una vita sentimentale soddisfacente, relazioni ricche e intense, anche quella che vivo oggi. Molte però finivano perché i miei fidanzati mi mollavano, “tu sei sposato con la politica”. Quando fai politica, sei un prete. Ho lottato per una cosa che non sono riuscito a vivere personalmente».
Le sue armi?
«È stata una battaglia collettiva, i meriti sono di tutti. Io semmai rivendico di aver portato un movimento di pura liberazione sessuale su una linea politico-sentimentale. Gli italiani sono favorevoli alle unioni gay perché li abbiamo convinti che è una relazione d’amore fra due persone».
Avrete convinto gli italiani, ma non i politici.
«Nel 2002 firmai la prima proposta di legge sul matrimonio gay, neanche messa in calendario. Ripiegammo sui Pacs, poi sui Dico, saltò sempre tutto, nessuno voleva litigare col Vaticano, anche gli ex comunisti volevano i diritti gay ma con la benedizione del prete».
E come mai non è deluso?
«Perché lo abbiamo cambiato lo stesso, questo paese. I gay li menavano, si suicidavano. Ci sputavano addosso. Neanche adesso è un paradiso, ma i quindicenni gay ora lo dicono alla mamma. Abbiamo fatto una rivoluzione civile nonviolenta e qualcuno non se n’è neanche accorto».
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