Riyadh e Ankara usano le opposizioni per boicottare la tregua
Oggi a mezzogiorno in Siria governo e opposizioni dovrebbero aderire ufficialmente alla cessazione delle ostilità, a mezzanotte abbassare le armi. Fiato sospeso: si riuscirà nell’impresa? A remare contro gli ottimisti c’è lo scetticismo che ieri aleggiava sull’Ufficio Ovale. Il presidente Obama, in un incontro con re Abdallah di Giordania, volava basso: «Siamo molto cauti nel riversare aspettative [sulla tregua]».
Tra quegli ottimisti c’è l’Onu: l’inviato de Mistura oggi darà indicazioni sulla data di ripresa del negoziato, non appena le ostilità saranno cessate davvero. Fonti interne parlano del 4 marzo.
Invece tra chi osteggia la tregua ci sono proprio gli alleati di ferro dell’Occidente, Turchia e Arabia Saudita. Mentre Riyadh sfida tutti facendo arrivare proprio oggi i caccia nella base aerea di Incirlik, Ankara calpesta l’accordo dandone una personalissima interpretazione: «Tutti devono sapere che il cessate il fuoco vale solo per la Siria e le parti avversarie nel paese. Per noi non è vincolate quando sussiste una situazione di minaccia alla sicurezza della Turchia – ha detto il premier Davutoglu – Prenderemo le misure necessarie sia contro le Ypg kurde che contro Daesh».
La spavalderia di Erdogan ieri, però, è stata limitata dalla Corte costituzionale turca che ieri si è espressa sul caso dei due giornalisti Dundar e Gul del quotidiano Cumhuriyet. I diritti dei due reporter (in carcere da novembre con l’accusa di sostegno al terrorismo) sono stati violati, dice la Corte. Che così spalanca le porte della prigione: Dundar e Gul potrebbero uscire nelle prossime ore.
Nonostante le proteste Usa (lunedì il Dipartimento di Stato ha caldeggiato la fine dei bombardamenti turchi contro le postazioni kurde), è probabile che i raid continueranno. Ed essendo diretti contro le Ypg, braccio armato del Partito dell’Unione Democratica e alleato militare di Usa e Russia, renderebbero quell’accordo carta straccia.
Soprattutto perché nel mezzo, tra Turchia e kurdi, potrebbero infilarsi le opposizioni anti-Assad. Secondo un comunicato dell’Esercito Libero Siriano (Els) e pubblicato dall’agenzia libanese Now, i ribelli avrebbero lanciato un ultimatum di 24 ore ai civili kurdi che si trovano nelle città intorno al cantone di Afrin e liberate dalle Ypg, da Tal Rifaat a Marea: andatevene e abbandonate i combattenti kurdi, «fate pressioni contro le gang che hanno violato quelle città».
Intanto diverse brigate dell’Els consegnavano a Syria Direct le proprie posizioni in merito alla tregua. Dicono tutti la stessa cosa: non si può escludere il Fronte al-Nusra dall’accordo: «Se si lascia fuori al-Nusra le uccisioni di civili continueranno – dice il maggiore al-Wami, segretario generale della milizia – Al-Nusra è partner di molte brigate che partecipano alla conferenza di Riyadh». Gli fa eco il portavoce di Alwiyat al-Furqan, attiva a Daraa e Quneitra: «Non accettiamo una tregua senza al-Nusra. Se oggi si escludono loro, domani potrebbero essere esclusi Ahrar al-Sham o Jaysh al-Islam».
Si negano le basi stesse dell’accordo: come l’Isis, al-Nusra (braccio siriano di al Qaeda) è considerato dalla comunità internazionale gruppo terroristico. Eppure appare ben integrato nell’ampia galassia delle opposizioni ad Assad che preferiscono i qaedisti ai kurdi siriani, accusati da molti di collaborazionismo con il governo Assad.
Dietro è facile immaginare il ruolo di Turchia e Arabia Saudita che di molte opposizioni sono le finanziatrici. Ne dettano l’agenda perché sono quelle che le mantengono in vita: le armi che partono dal Golfo entrano in Siria dalla confine turco. Un tragitto messo in pericolo proprio dalla presenza kurda nel nord della Siria e dall’avanzata delle truppe governative.
Quelle armi sono da tempo nel mirino di molte organizzazioni per i diritti umani: il principale rifornitore dei paesi del Golfo, dal Qatar all’Arabia Saudita, le monarchie che infiammano la crisi siriana e devastano lo Yemen, è l’Occidente. Usa, Gran Bretagna, anche l’Italia: un mercato che dal 2011 al 2015 è salito alle stelle, un incremento del 275% secondo il Stockholm International Peace Research Institute.
Ma le violazioni in Yemen contro civili, ospedali e scuole sono così palesi che ieri il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione che chiede a Bruxelles di ordinare l’embargo militare contro Riyadh. Con 395 sì e 212 no, il Parlamento ha fatto appello all’Alto Rappresantante agli Affari Esteri Mogherini perché «lanci un’iniziativa volta a imporre un embargo sulle armi all’Arabia Saudita a causa delle gravi accuse di violazioni del diritto umanitario in Yemen».
A poco sono serviti i tentativi di lobby della petromonarchia, terrorizzata dalle potenzialità di un simile uragano: è riuscita solo a far slittare il voto, previsto originariamente per il 4 febbraio. La risoluzione non è vincolante, ma apre una falla nel collaudato mercato bellico di Riyadh.
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