Addio a Umberto Eco

by ANTONIO GNOLI, la Repubblica | 20 Febbraio 2016 8:46

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Due o tre cose venivano in mente incontrando Umberto Eco: il whisky, i calembour e il Medioevo. Le prime due appartenevano alla sua natura giocosa e mondana, l’ultima era il frutto di una strepitosa curiosità mentale. Quel mondo remoto, segnato dalla superstizione e dalle nevrosi collettive, lo affascinava. Può stupire la dedizione a quei secoli, ingiustamente definiti bui, in un uomo che non ha mai dubitato della propria natura illuminista.
Una spiegazione si ricava dal rapporto che ebbe con Luigi Pareyson, i cui vasti interessi filosofici spaziavano dalla cultura antica a quella contemporanea. Il professore di Torino individuò in Eco (nato ad Alessandria nel 1932) e in Gianni Vattimo gli allievi più brillanti ai quali affidare le ricerche più ambiziose e remote. A Vattimo fu chiesto di occuparsi di Aristotele, mentre Eco venne indirizzato sull’estetica di Tommaso d’Aquino. Erano allievi mentalmente agili, spregiudicati, ambiziosi. Provenivano dal mondo cattolico. Arrivavano dalla provincia. Ma si intuì che avrebbero fatto molta strada. Il rapporto con Pareyson fu per Eco fondamentale. Con la libera docenza le loro strade si divisero. Fu solo negli ultimi mesi di vita (Pareyson si spense nel 1991) che avvenne il riavvicinamento: «Compresi che, per quanto forti fossero le divergenze culturali, era pur sempre stato il mio maestro. Se ci fai caso, mi disse, tutti i miei romanzi sono come un Bildungsroman: c’è un giovane che apprende da un legame formativo con un anziano. È la ragione per cui ho fatto il professore e resto in contatto affettuosissimocon tutti i miei studenti».
A quelle parole, pronunciate con una certa nostalgia, mi venne in mente il rapporto tra Guglielmo e Adso ne Il nome della rosa (1980), il romanzo che gli cambiò la vita ma non il modo di pensare. Dopotutto, che cosa fu quel folgorante esordio narrativo se non anche un modo di tornare ai temi filosofici che gli erano più congeniali? Nel romanzo si sforzò di pensare come un uomo medievale. Immaginò, lasciandosene ammaliare, che l’uomo medievale fosse preda di oscure nevrosi alimentate da un’endemica condizione di angosciosa insicurezza. Per certi versi simile a quella nella quale oggi versiamo. Eco ne immaginò un vertice accattivante nella figura di Guglielmo di Baskerville. C’è da dire che
Il nome della rosa ribolle di araldica medievale, di simbologie minacciose, di contese teologiche, di enigmi interpretativi e di immagini mostruose. Da queste ultime Eco si sentiva attratto. Al punto che la riflessione sulla bellezza — di cui si era a lungo occupato secondo i canoni classici dell’antichità — non lasciava fuori il gusto per il deforme e il difforme. Fu, insomma, consapevole che la cultura medievale — affascinata dal prodigioso ma, al tempo stesso, dal difforme e dall’insolito — aveva fornito le basi a un nuovo modo di percepire la realtà e le sue rappresentazioni. Qualcosa di molto simile immaginò per la nostra contemporaneità, afflitta anch’essa dal disordine e dall’irregolare.
Eco amava mescolare generi letterari ed epoche storiche, padroneggiando con abilità borgesiana l’universo dei libri e i suoi segreti. Tra le tante cose, fu anche un bibliofilo raffinato e competente. Come pochi seppe giocare con la realtà. Seppe affrontarla nei suoi toni alti e bassi. Nelle sue paradossalità e infingimenti. Pensava che le teorie del falso e del vero non fossero prerogativa del mondo contemporaneo. E non fosse di nostra esclusiva pertinenza culturale la loro indistinzione. Il Medioevo aveva conosciuto la pratica di una verità riconducibile a Dio. Tuttavia, Dio non sempre era presente e in agguato c’erano i demoni pronti a confondere la mente dei logici medievali. Certo, i processi di falsificazione attuati dal mondo contemporaneo — sia nell’universo politico che in quello mass-mediologico che ben conosceva grazie alla sua esperienza in Rai nei primi anni Cinquanta — toccano solo in minima parte i problemi di fede e di credenza che l’ingenuità medievale aveva posto al centro del proprio universo. E chissà con quale sdegno Tommaso o Agostino avrebbero reagito alla messa in discussione del concetto di autenticità. A volte lo scrittore mostrava insofferenza verso chi liquidava i suoi lavori più popolari come il frutto evanescente della postmodernità. Al contrario, la sua mente era quanto di più moderno si potesse immaginare. Enciclopedica, classificatoria, erudita, paradossale. Giocosa. Fu tra i fondatori del Gruppo 63 insieme a Nanni Balestrini, Oreste Del Buono e Angelo Guglielmi, uno dei rari movimenti di neoavanguardia nell’Italia di quegli anni e poi fondatore del Dams, altro esperimento inconcepibile di trasformare in disciplina accademica arti e materie non allineate. Il tutto senza mai perdere l’ironia. Colse nel riso una qualità esclusivamente umana. Capace di allontanare l’uomo dall’idea di morte. Descrisse Rabelais, che congiunse il mondo medievale con il moderno, come il più straordinario interprete dell’ilarità eversiva. In questo richiamo al mondo medievale Eco rintracciava le radici stesse dell’Europa. Non solo nelle acquisizioni cristiane, non solo nelle mire espansioniste che l’Occidente cominciò a darsi con le Crociate e poi attraverso i primi viaggi; ma anche mediante la riscoperta delle conoscenze filosofiche antiche. Il paradigma medievale fu la stella che orientò il suo cammino. Perfino nei rapporti con Joyce, forse lo scrittore contemporaneo che ha amato più di ogni altro, Eco misurò la vicinanza con il Medioevo. La devozione che il grande dublinese ebbe per quei secoli — per Tommaso e la scolastica, come pure per Dante — furono la ragione di un segreto rispecchiamento. Un’idea seminale che lo avrebbe accompagnato per tutto la vita. Tra i grandi meriti di questo intellettuale c’è anche lo straordinario interesse che le sue opere hanno suscitato a livello internazionale. Fu così che l’Italia, quasi d’improvviso, apparve grazie a lui, un paese culturalmente meno asfittico e deprimente. Egli stesso si meravigliò del grande clamore che il suo nome stava producendo. L’ironia lasciò il posto a una sottile preoccupazione. Come se tutto ciò distogliesse dai veri compiti dello studioso di semiotica e di filosofia che nel corso dei decenni ci ha regalato saggi importanti, su tutte le sue variegate materie di studio: da Opera aperta (1962) ad Apocalittici e integrati (1964); da La struttura assente (1968) a Trattato di semiotica generale (1975); fino alle sue raccolte di articoli, come quel Diario minimo (1963) che contiene due dei suoi scritti più noti al grande pubblico, Fenomenologia di Mike Bongiorno ed Elogio di Franti. E poi ci sono le tante Bustine di Minerva disseminate, negli anni, sull’Espresso, amatissime dai lettori. E naturalmente i romanzi successivi a Il nome della rosa, come Il pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Il cimitero di Praga(2010) e l’ultimo, Numero zero, pubblicato nel gennaio dello scorso anno. Ma questa produzione letteraria recente non ha esaurito la vitalità di Eco. Perché la sua ultima grande avventura è cominciata lo scorso novembre, quando con il direttore editoriale Elisabetta Sgarbi e un folto gruppo di autori italiani e internazionali ha lasciato Bompiani, nel pieno della fusione tra Mondadori e Rcs, per fondare una nuova casa editrice, La Nave di Teseo. Ed è davvero triste che non abbia fatto in tempo a vederla salpare.
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