Putin torna a Kabul Patto con i talebani
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È uno dei pochi stranieri ad aver incontrato il Mullah Omar, una ventina di anni fa per ottenere la liberazione di sette aviatori russi presi in ostaggio dai talebani. È uno dei pochi stranieri che a Kabul ha vissuto durante l’occupazione sovietica — da agente del Kgb — e ci è tornato — da ambasciatore — quando a invadere il Paese sono stati gli americani.
Zamir Nabiyevich Kabulov è nato dall’altra parte del confine (in Uzbekistan), si muove da un trentennio tra queste montagne ed è l’inviato speciale per l’Afghanistan di Vladimir Putin. Che era un suo collega ai tempi dei servizi segreti e come lui considera la ritirata dal Paese dell’Asia centrale tra le cause nel crollo dell’Unione Sovietica. Insieme progettano di tornarci: non da conquistatori, almeno da influenti alleati.
La strategia è simile a quella dell’intervento in Siria: riempire gli spazi lasciati scoperti dalle incertezze occidentali, stringere accordi con i complici locali, riguadagnare influenza globale. Con due obiettivi: contrastare l’avanzata dello Stato Islamico (in questo caso Mosca sembra preoccupata dall’instabilità sul fronte Sud e dall’espansione del Califfato verso il Caucaso); manomettere le operazioni degli americani e della Nato, in bilico tra smobilitare le truppe o irrobustire l’impegno.
In Afghanistan i russi stanno scegliendo come interlocutori proprio i figli e i nipoti di quelli che li combatterono tra il 1979 e il 1989, quando i caduti sovietici furono oltre 13 mila. Anche i talebani considerano lo Stato Islamico un nemico e sono pronti a trattare per riuscire a sloggiarne i miliziani dalle 25 — su 34 — province in cui sono già presenti. Kabulov ammette i contatti con l’organizzazione che per Mosca resta nella lista nera dei gruppi terroristici: «I loro interessi coincidono con i nostri. Abbiamo aperto dei canali per scambiare informazioni».
Informazioni e munizioni. In maggio una delegazione talebana — rivela il sito Daily Beast — ha visitato il Tagikistan (dove i russi hanno una grande base militare) per negoziare il rilascio di quattro doganieri rapiti. In cambio avrebbero ottenuto armi: l’intelligence americana è convinta che la cattura di Kunduz — a una settantina di chilometri dalla frontiera con il Tajikistan — lo scorso settembre sia stata resa possibile dal sostegno russo che avrebbe fornito i fucili mitragliatori e i lanciagranate sofisticati utilizzati dai fondamentalisti nell’assalto. «Il Cremlino si crogiola nella rivalsa — scrive l’analista James Kitfield —. Armare gi estremisti che stanno combattendo gli americani come gli americani fecero con quegli stessi estremisti durante l’invasione sovietica».
L’espansionismo russo in Asia centrale è stato notato e annotato da James Clapper, il direttore della National Intelligence, che una settimana fa davanti al Senato americano ha testimoniato: «La Russia cercherà di sfruttare l’instabilità per avere un ruolo sempre più importante. Con le nazioni della regione condivide la preoccupazione per l’avanzata dello Stato Islamico».
La proclamata lotta al Califfato, la stessa giustificazione fornita per l’intervento in Siria, non convince alcuni analisti a Washington: «Non me la bevo — commenta una fonte dei servizi segreti citata da Kitfield —. Mosca non può accettare la presenza della Nato e dei militari americani sul suo confine sud, non vuole neppure un leader pro-Stati Uniti in Afghanistan. Così nasce il patto con i talebani per cacciare i nostri alleati dal potere. Classico Putin». E per non correre rischi il Cremlino prova a portare dalla propria parte anche il governo afghano attraverso vecchi amici come Rashid Dostum, il signore della guerra diventato vicepresidente, da sempre accolto a Mosca come un grande condottiero.
Negli anni da ambasciatore a Kabul, quando a combattere e a cadere contro i talebani erano i soldati occidentali, Kabulov era tornato nel palazzo bianco con le grandi vetrate blu che dopo la ritirata sovietica era stato distrutto negli scontri della guerra tra le fazioni di mujahidin ed era diventato il rifugio diroccato per i civili sfollati. Da osservatore già passato attraverso il caos afghano, aveva commentato in un’intervista al quotidiano New York Times : «Non è vero che speriamo nel vostro fallimento per rivalsa. Voi americani avete già commesso tutti i nostri errori e adesso ne state facendo di nuovi su cui non abbiamo il copyright».
Davide Frattini
La strategia è simile a quella dell’intervento in Siria: riempire gli spazi lasciati scoperti dalle incertezze occidentali, stringere accordi con i complici locali, riguadagnare influenza globale. Con due obiettivi: contrastare l’avanzata dello Stato Islamico (in questo caso Mosca sembra preoccupata dall’instabilità sul fronte Sud e dall’espansione del Califfato verso il Caucaso); manomettere le operazioni degli americani e della Nato, in bilico tra smobilitare le truppe o irrobustire l’impegno.
In Afghanistan i russi stanno scegliendo come interlocutori proprio i figli e i nipoti di quelli che li combatterono tra il 1979 e il 1989, quando i caduti sovietici furono oltre 13 mila. Anche i talebani considerano lo Stato Islamico un nemico e sono pronti a trattare per riuscire a sloggiarne i miliziani dalle 25 — su 34 — province in cui sono già presenti. Kabulov ammette i contatti con l’organizzazione che per Mosca resta nella lista nera dei gruppi terroristici: «I loro interessi coincidono con i nostri. Abbiamo aperto dei canali per scambiare informazioni».
Informazioni e munizioni. In maggio una delegazione talebana — rivela il sito Daily Beast — ha visitato il Tagikistan (dove i russi hanno una grande base militare) per negoziare il rilascio di quattro doganieri rapiti. In cambio avrebbero ottenuto armi: l’intelligence americana è convinta che la cattura di Kunduz — a una settantina di chilometri dalla frontiera con il Tajikistan — lo scorso settembre sia stata resa possibile dal sostegno russo che avrebbe fornito i fucili mitragliatori e i lanciagranate sofisticati utilizzati dai fondamentalisti nell’assalto. «Il Cremlino si crogiola nella rivalsa — scrive l’analista James Kitfield —. Armare gi estremisti che stanno combattendo gli americani come gli americani fecero con quegli stessi estremisti durante l’invasione sovietica».
L’espansionismo russo in Asia centrale è stato notato e annotato da James Clapper, il direttore della National Intelligence, che una settimana fa davanti al Senato americano ha testimoniato: «La Russia cercherà di sfruttare l’instabilità per avere un ruolo sempre più importante. Con le nazioni della regione condivide la preoccupazione per l’avanzata dello Stato Islamico».
La proclamata lotta al Califfato, la stessa giustificazione fornita per l’intervento in Siria, non convince alcuni analisti a Washington: «Non me la bevo — commenta una fonte dei servizi segreti citata da Kitfield —. Mosca non può accettare la presenza della Nato e dei militari americani sul suo confine sud, non vuole neppure un leader pro-Stati Uniti in Afghanistan. Così nasce il patto con i talebani per cacciare i nostri alleati dal potere. Classico Putin». E per non correre rischi il Cremlino prova a portare dalla propria parte anche il governo afghano attraverso vecchi amici come Rashid Dostum, il signore della guerra diventato vicepresidente, da sempre accolto a Mosca come un grande condottiero.
Negli anni da ambasciatore a Kabul, quando a combattere e a cadere contro i talebani erano i soldati occidentali, Kabulov era tornato nel palazzo bianco con le grandi vetrate blu che dopo la ritirata sovietica era stato distrutto negli scontri della guerra tra le fazioni di mujahidin ed era diventato il rifugio diroccato per i civili sfollati. Da osservatore già passato attraverso il caos afghano, aveva commentato in un’intervista al quotidiano New York Times : «Non è vero che speriamo nel vostro fallimento per rivalsa. Voi americani avete già commesso tutti i nostri errori e adesso ne state facendo di nuovi su cui non abbiamo il copyright».
Davide Frattini
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