by ROSARIA AMATO, la Repubblica | 15 Febbraio 2016 9:54
Si torni ai tavoli della contrattazione per rilanciare la produttività e lo sviluppo ma anche i salari. Prima che quel faticoso inizio di ripresa che s’intravvede sempre meno dai dati del Pil venga soffocato dalla tempesta dei mercati finanziari e dalle divergenze tra i Paesi europei: lo chiede con forza Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl. Che richiama il governo a un confronto anche sulla revisione delle pensioni di reversibilità legata al ddl per il contrasto alla povertà.
In queste ore molti esponenti politici hanno criticato la riforma. Qual è la posizione della Cisl?
«E’ una questione molto delicata che bisogna affrontare con il confronto con il sindacato e le altre associazioni per non fare strafalcioni».
Sui contratti il nodo è proprio questo: sta risultando difficile portare tutte le parti sociali intorno a un tavolo. Tanto che in un intervento sul Corriere della Sera l’economista Bini Smaghi chiede al governo di agire per superare quest’impasse.
«E’ assolutamente sbagliato. Io rispetto le opinioni di tutti, anche se credo che banchieri ed economisti debbano preoccuparsi piuttosto di far bene il loro lavoro, visto che spesso le loro analisi si sono rivelate sbagliate. Ne è la controprova questa crisi che sta attraversando il mondo occidentale, e che nasce anche dalla sottovalutazione che molti economisti hanno fatto in questi anni dell’evoluzione dei mercati finanziari, e dalla presunzione che nei sistemi economici le cose si aggiustino da sole. Mentre la contrattazione va lasciata alle parti sociali, che hanno la competenza necessaria per occuparsene».
L’orientamente prevalente in Confindustria però sembra opposto al vostro, che punta al mantenimento dei due livelli di contrattazione, pur rafforzando il secondo.
«Nella nostra proposta unitaria noi affermiamo che sono i contratti collettivi a stabilire i minimi, ma che va anche dato impulso alla contrattazione di secondo livello, che in un Paese nel quale prevalgono le piccole e medie imprese non sempre può essere aziendale, in molti casi deve essere territoriale».
Quindi siete contrari a minimi salariali stabiliti per legge?
«Se il Parlamento dovesse andare in questa direzione, poiché i contratti collettivi già sottoscritti coprono l’85% dei lavoratori, non potrebbe che recepire i minimi già pattuiti dalle parti sociali. Non sarebbe equo e non è il momento di diminuire i salari minimi, è una decisione che peserebbe sulla domanda visto che il 75% della produzione italiana è rivolta al mercato interno».
Perché dà per scontato che un minimo stabilito per legge si tradurrebbe in una riduzione dei salari?
«Perché è quello che è avvenuto in tutti i Paesi in cui è stato attivato questo meccanismo. Certo non basta il primo livello: noi siamo nelle condizioni di contrattare anche il secondo, con la partecipazione dei dirigenti, dei lavoratori e delle lavoratrici, per distribuire la ricchezza e far crescere la produttività».
Purché la crescita prosegua: gli ultimi dati non sono incoraggianti.
«Nel 2015 abbiamo avuto finalmente un segno più, ma in un contesto di debolezza estrema. L’Europa deve puntare su politiche economiche a favore della crescita: non si tratta di discutere di pochi decimali di flessibilità, bisogna rivedere il fiscal compact, l’austerità, abbiamo bisogno di dare ossigeno alle nostre imprese e di ripartire dagli investimenti. L’Italia dovrebbe farsi portavoce di questo cambiamento, certo non da sola, alleandosi con altri Paesi che puntino a una costituente che metta al centro l’economia reale, la crescita».
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