Francia, stato d’emergenza nell’aula vuota
Valls presenta la riforma di fronte a un’Assemblea mezza vuota. Il governo vuole la costituzionalizzazione dello stato d’emergenza e della privazione della nazionalità per i terroristi. Ma il percorso potrebbe arenarsi prima della fine, tra polemiche a sinistra e divisioni a destra. Duflot evoca Vichy. Parla lo storico Benjamin Stora: non ci sono più strumenti di integrazione. Intervista allo storico Benjamin Stora: «Si saldano una storia nazionale antica, un’angoscia verso i migranti che dura dal XIX secolo e l’angoscia nuova di un paese che sa di non essere più una grande potenza»
PARIGI La revisione costituzionale è arrivata all’Assemblea nazionale, il voto dei deputati – dall’esito incerto – è previsto per mercoledì 10. Manuel Valls ha presentato ieri mattina i termini della riforma della Costituzione proposta dal governo, in due articoli: lo stato d’emergenza sarà inserito nella Carta e i responsabili di «crimini o reati contro la vita della nazione» potranno venire privati della nazionalità, su decisione del giudice.
Paradossalmente, il primo ministro ha parlato di fronte a un’Assemblea quasi vuota – non più di 150 deputati su 577 – malgrado le polemiche delle ultime sei settimane, le dimissioni della ministra della Giustizia Christiane Taubira e le profonde divisioni che si sono manifestate, non solo a sinistra ma anche a destra. Tanto che il governo non ha nessuna certezza di poter portare a termine questa riforma eminentemente simbolica, che per passare deve venire approvata dai tre quinti del Congresso (Assemblea e Senato riuniti), su un testo passato precedentemente in termini identici nelle due camere.
In via di principio, questa procedura può durare all’infinito o, molto più probabilmente, insabbiarsi sotto il peso degli emendamenti. La costituzionalizzazione dello stato d’emergenza è meno controversa, nelle intenzioni di Valls, che ha ripreso la tesi dello storico Pierre Rosanvallon, l’inserimento nella Carta ne «subordina l’applicazione al diritto» (propone la possibilità di dichiarare lo stato d’emergenza per 4 mesi, rinnovabili).
Solleva invece una forte resistenza la costituzionalizzazione della privazione di nazionalità per i condannati per terrorismo. Ieri, in aula la Verde Cécile Duflot ha evocato Vichy e «l’utilizzazione massiccia» che ne aveva fatto questo regime. Per evitare lo scoglio della punizione riservata solo ai bi-nazionali, Valls ha precisato che la misura riguarderà tutti i terroristi, «qualunque sia l’origine della loro appartenenza alla nazione». Ma un decreto di applicazione dovrà chiarire come farà la Francia ad evitare di creare degli apolidi, situazione esclusa dalle convenzioni internazionali del dopo-guerra (Duflot ha ricordato le riflessioni di Hannah Arendt su questo tema).
La tensione è estrema. Il dibattito sulla privazione della nazionalità solleva in termini drammatici la questione dell’identità, diventata una vera e propria ossessione in Francia in questo periodo, caratterizzato dalla crescita elettorale del Fronte nazionale.
Per capire le origini di questo irrigidimento identitario, chiediamo allo storico Benjamin Stora, grande specialista della storia d’Algeria e del colonialismo, professore a Paris XIII e presidente del Museo nazionale di storia dell’immigrazione (che ha appena pubblicato con lo scrittore Alexis Jenni, Les Mémoires dangereuses, ed. Albin Michel), quali sono le radici di questa ossessione.
«Si trovano nella storia francese e nel processo migratorio – dice Stora -. La Francia è il paese che ha avuto le maggiori ondate migratorie, dal XIX secolo. Italiani, polacchi, spagnoli, portoghesi, poi persone provenienti dalle ex colonie, dal Maghreb, dall’Africa sub-sahariana: in Francia milioni di persone sono discendenti di immigrati. Fino ad un certo punto, c’è stata la sensazione che le differenti ondate potessero integrarsi in una narrazione nazionale continua. Ma oggi è diffusa l’idea che questa narrazione sia bloccata. Che le ultime ondate non riescano a integrarsi. A causa dell’islam, il rapporto all’alterità diventa radicale, sembra insormontabile».
«C’è così una congiunzione – prosegue lo storico – tra una storia nazionale antica, tra una vecchia angoscia verso l’immigrazione che dura dal XIX secolo e un’angoscia nuova, nella misura in cui la Francia ha il sentimento di non essere più una grande potenza, in relazione all’impero coloniale. A torto o a ragione, si diffonde l’idea di declino, aggravata dalla crisi, della disoccupazione ecc. Gli altri paesi europei non hanno vissuto questo, non hanno un’analoga storia di immigrazione. Ma la Francia non ha voluto assumere la propria storia migratoria, anche se deve in parte la sua potenza proprio ad essa. Si è così accumulato un ritardo, di 3, 4, 5 generazioni».
Assistiamo a una concorrenza delle memorie, che aggrava le tensioni?
Sì, prima, le diverse memorie, sotto la narrazione nazionale unificata, si manifestavano solo nello spazio privato. Oggi, invece, con la mondializzazione, le memorie private non bastano più e si manifestano nello spazio pubblico, crescono le rivendicazioni relative all’origine e alla multi-appartenenza. Ma per la Francia, che si era basata sul principio dell’assimilazione, è una nozione nuova.
La frattura comunitaria ha preso il sopravvento su quella sociale perché non ci sono più strumenti forti per esprimerla, come i partiti o i sindacati?
Partiti, sindacati, movimenti associativi sono in crisi, sono crollati e non sono più strumenti per la costruzione di una narrazione comune. Si chiede alla scuola di sostituirsi alla valenza politica, ma la scuola non può fare tutto, integrazione e formazione. Appare così in primo piano la frattura etnica. Si dà il caso che queste persone appartengano anche alle classi sociali più povere, ma mancano gli strumenti di integrazione. In mancanza di strumenti di protesta sociale, la frattura si esprime in termini etnici, religiosi.
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