Viaggio intorno a una clinica pratica e «situazionale»
In un certo senso, il nuovo libro del filosofo e psicoanalista argentino, ma da anni residente in Francia, Miguel Benasayag – Oltre le passioni tristi, appena pubblicato da Feltrinelli (pp. 155, euro 18) – inizia dove finiva, dello stesso Benasayag insieme a Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi (pubblicato sempre da Feltrinelli nel 2004); e non soltanto per l’evocazione contenuta nel titolo (peraltro assente nel titolo originale, Clinique du mal-être). Ne costituisce una prosecuzione, un approfondimento, a partire dal medesimo paesaggio psicosociale di riferimento: vivevamo allora e continuiamo a vivere oggi, secondo Benasayag, in un’epoca nella quale uomini e donne, e soprattutto i giovani, sembrano essere divenuti incapaci di affrontare la complessità del mondo, di accettarne le implicazioni e le conseguenze, e le crisi sociali ed economiche esplose negli ultimi anni hanno perfino aggravato, ed è comprensibile, i disagi e le sofferenze. La vita fa sempre più paura, il futuro è sempre più una minaccia anziché una promessa; e questa paura, questa incombenza hanno generato sempre più solitudine.
Dal suo osservatorio di clinico pratico oltre che teorico, Benasayag vede dunque persone sempre più isolate non solo dagli altri ma anche da sé stesse, e sempre più votate a coltivare ideali individualistici e materialistici, come se solo questo potesse offrire rimedio o almeno conforto: «nella crisi attuale, che è crisi dei fondamenti della cultura – scriveva già dieci anni fa Benasayag – l’homo oeconomicus supplisce alla mancanza di senso con l’economia, che diventa per lui il senso della vita e per la vita». L’epoca delle passioni tristi individuava una soluzione possibile – vale a dire una possibile direzione di cura, dal punto di vista della psicoterapia, ma anche una possibile forma di resistenza personale, rimessa a ciascuno – nell’immaginazione di orizzonti diversi, nei quali all’utilitarismo si sostituisse la gratuità dell’essere e del fare: dovremmo imparare, suggeriva Benasayag, a seguire il nostro destino quale che sia, non nel senso di accettarlo come fatalità bensì nel senso di impegnarci a diventare ciò che siamo davvero. E la ricostruzione dei legami con noi stessi, concludeva L’epoca delle passioni tristi, è l’unica possibile strada verso la creazione di nuovi legami con gli altri e con l’esterno.
Esattamente da qui ricomincia Oltre le passioni tristi: dalla constatazione che, dieci anni dopo, siamo invece ancora più rinchiusi dentro le nostre individualità, al punto che le nuove sofferenze psichiche sono diventate ormai ontologiche a tutti gli effetti. Distrutta ogni interiorità, venuto meno ogni legame con le parti più profonde di noi stessi e con il mondo che abitiamo, oggi non sappiamo quasi più chi siamo e cosa vogliamo, e nulla più ci tocca e ci riguarda. L’epoca postmoderna (attraverso i suoi mille dispositivi, fra i quali in primo luogo i social network e l’uso distorto della rete) ha ridotto gli individui, infine, a puri «profili», «processori d’informazione», «falsi sé»: ciascuno è, o cerca di essere, ciò che deve secondo il senso comune e dominante, e niente di più. Ci illudiamo di diventare ciò che siamo, ma che sia solo un’illusione lo dimostrano proprio le sofferenze di cui lo stesso Benasayag è testimone come psicoanalista e di cui ci offre molti esempi: storie di persone giovani o adulte etichettate come «brillanti – secondo certi parametri di successo», secondo la «cultura della performance», ma nella realtà incapaci, perché impreparate, a gestire le proprie fragilità e debolezze. «La postmodernità – scrive Benasayag – chiama intelligenza la capacità di disintegrarsi quanto basta per potersi conformare all’esoscheletro di un’impresa», indipendentemente dal fatto di provare «affinità o interesse» verso quello che l’impresa produce; ma la vita non si esaurisce mai nella conformazione a modelli imposti dall’esterno, e ciò che trabocca si trasforma appunto in sofferenza.
Fondato su queste basi, Oltre le passioni tristi rappresenta un atto d’accusa ferocissimo contro le terapie psichiche più in voga, del tutto inadeguate – secondo Benasayag – ad affrontare le nuove sofferenze. Benasayag imputa in particolare alla psicoanalisi di aver addirittura tradito se stessa, perché il suo compito sarebbe stato quello di contrastare, e non di assecondare, l’ideologia dominante, di cui invece sarebbe divenuta complice nella misura in cui dimostra a sua volta di «credere che esista solo l’individuo, che conti solo la vita personale, nello stesso momento in cui tale individuo esiste sempre meno come persona dotata di un’interiorità e sempre più come un insieme di moduli senza unità». Ma sarebbe tutto il «campo psi», più in generale, ad aver abdicato a qualunque funzione oppositiva, accontentandosi di ridursi a «uno degli spazi più evidenti di sperimentazione per questo genere di diagnosi, di trattamenti e di terapie che funzionano grazie all’allestimento di griglie normalizzate».
A tale dogmatismo Benasayag contrappone una terapia che definisce «situazionale», dichiarandone apertamente la derivazione dalla psichiatria fenomenologica (i cui più illustri esponenti sono stati, nel passato, Binswanger e Minkowski, e cui oggi appartiene fra gli altri Eugenio Borgna). Si tratta, dice Benasayag, di far uscire l’individuo dal suo «io» e di ricollocarlo nel posto che gli spetta, e cioè nel mondo – nella «situazione» – che abita; ma a questo fine è necessario, prima di tutto, accogliere le persone, ascoltarle, essere disposti a riconoscerne l’unicità e l’irripetibilità. Per la terapia situazionale non esistono diagnosi o cure uguali per tutti, pur a fronte di dati catalogabili in astratto nello stesso modo, perché il giusto per l’uno potrebbe non esserlo per l’altro; e non esiste differenza fra realtà psichica interna ed esterna, perché siamo quel che siamo in virtù di tutto ciò che è dentro e fuori di noi. Per questo non esiste mai neppure una «fobia» o un «ricordo doloroso» da cancellare, perché si tratta piuttosto di «inscriverli in una molteplicità che favorisca la potenza».
Oltre le passioni tristi è un grande libro, come lo era L’epoca delle passioni tristi, e chiunque, non solo chi operi nel «campo psi», dovrebbe leggerlo: Benasayag parla a tutti, e a tutti rivolge un invito – che similmente, in un bellissimo saggio di tre anni fa, Oltre la paura, Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli avevano declinato, a livello politico, in termini di «fraternità» – ad aver maggior cura gli uni degli altri. Sarebbe questa la vera rivoluzione.
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