Solo l’83% delle donne in pensione
Tutti gli uomini vanno in pensione, le donne no, non tutte. E in Italia ci vanno meno che altrove. La differenza di genere pesa sulla previdenza: sia per quanto riguarda l’entità dell’assegno che per il diritto ad ottenerlo. L’Istat, nel suo rapporto sulla condizione dei pensionati, ha appena fatto notare che in Italia le donne ricevono in media 6 mila euro l’anno in meno rispetto agli uomini, ma uno studio elaborato dall’Università di Siena rincara la dose. Le disparità, precisa, sono notevoli anche guardando alla sola copertura. E la percentuale di donne italiane che restano all’asciutto è doppia rispetto alla media Ue.
Il rapporto (firmato da Francesca Bettio, professore di Economia politica, e Gianni Betti, professore di Statistica) mette in chiaro che quasi la totalità dei maschi italiani fra i 65 e i 79 anni riceve un trattamento pensionistico: il 99,3 per cento. Per le donne il valore scende all’83,9. Passando all’Europa a 27, le cose cambiano poco per gli uomini (la media è al 98,3 per cento), ma molto per le donne, visto che la copertura sale al 92 per cento. Quindi il differenziale fra uomo e donna è più che doppio: il 15,4 per cento, contro il 6,9. Limitare l’analisi agli under 79, sottolineano gli autori, ha permesso di contenere «l’effetto livellatore» delle pensioni di reversibilità, versate in grande maggioranza alle donne più anziane (il concetto di pensione cui si fa riferimento è comunque ampio: tiene conto di quelle da lavoro, invalidità, sociali, integrative, oltre alla stessa reversibilità). Se le donne italiane non vanno in pensione, quindi, è perché il loro tasso di occupazione è troppo basso: 46,8 per cento contro la media dell’Europa 27 a 59,5. Starsene a casa magari solo perché non c’è l’asilo nido le penalizza due volte in termini di reddito: da attive e in vecchiaia. Tanto più per la difficoltà di coprire i buchi contributivi legati alle interruzioni di carriera. Quanto all’entità dell’assegno ricevuto, nella fascia d’età fra i 65 e i 79 anni, le italiane ricevono in media 600 euro lordi al mese in meno (1.654 euro contro 1.064). Una differenza del 36 per cento che comunque, a sorpresa , sta sopra la media europea, fissata al 40 per cento. Quindi, se hanno lavorato, le donne italiane ora in pensione possono godere di un assegno più alto rispetto alle «colleghe » europee. Un po’ perché le femmine, per quanto riguarda quella generazione, non hanno avuto da nessuna parte vita facile. Un po’ perché le italiane sono state protette da due fattori: un part-time poco diffuso rispetto alla media europea (quindi stipendi più alti e più contributi) e una pensione che – per chi oggi riceve l’assegno – è stata conteggiata quasi esclusivamente con il metodo retributivo. Due fattori destinati a scomparire in fretta e non utilizzabili dalle nuove generazioni, fa notare lo studio che Bettio e Betti hanno presentato in audizione alla commissione Lavoro. Difficile capire oggi se i due gap che penalizzano le donne (copertura e reddito) possano sparire in futuro. «L’incremento dell’occupazione e la maggiore continuità retributiva» possono far sperare bene. Ma «la crescita del part-time, la diffusione di contratti con ridotte protezioni assicurative e il passaggio al sistema contributivo» spingono ad un aumento delle disparità. Per Marialuisa Gnecchi, capogruppo Pd in commissione Lavoro, ciò significa che intervenire per sanare le penalizzazioni è più che mai necessario. «Intro-ducendo la parità anagrafica fra uomo e donna la riforma Fornero ha annullato l’unico sistema compensativo riconosciuto alle donne italiane, senza introdurre le correzioni previste invece in molti Paesi europei, che hanno riconosciuto maternità e cura delle persone. Ora tocca a noi».
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