by ANAIS GINORI, la Repubblica | 8 Gennaio 2016 9:28
PARIGI. Sotto la pioggia battente, François Hollande ha appena finito di snocciolare come un rosario i nomi dei tre poliziotti uccisi un anno fa, in quel 7 gennaio 2015 che ha precipitato il paese nell’epoca della minaccia terrorista permanente. Era una mattina fredda e tersa. Questa volta, c’è un cielo di piombo. «Abbiamo davanti combattenti agguerriti, abituati a una violenza estrema », dice il Presidente nel cortile della Prefettura di Parigi, durante la commemorazione ufficiale.
Sono da poco passate le 11.30, l’ora in cui i fratelli Kouachi erano entrati nella redazione di Charlie Hebdo. Dall’altra parte di Parigi, nel diciottesimo arrondissement, un uomo avanza davanti a un commissariato. Secondo la ricostruzione della procura di Parigi, grida «Allah Akbar», diventato ormai un urlo di guerra, e brandisce una mannaia. Gli agenti di guardia chiedono all’uomo di fermarsi, intravedono sotto al giubbotto dei fili elettrici. L’uomo continua ad avvicinarsi. I poliziotti sparano.
Un corpo a terra che deve ancora svelare tutti i suoi misteri, una nuova giornata di panico e confusione, con un quartiere completamente isolato, i nervi a fior di pelle, la paura che riaffiora in pochi attimi tra la gente che si sposta in metrò. Linee deviate, sirene in mezzo al traffico, la sensazione che non finirà mai.
Il primo anniversario degli attentati di Charlie Hebdo è segnato da un nuovo allarme nella capitale. Un perimetro di oltre 500 metri quadrati viene sigillato dalla polizia intorno al commissariato della Goutte d’Or, il cuore della comunità araba del diciottesimo, enclave di macellerie halal e dove c’è una delle moschee più frequentate e sorvegliate del paese. È successo tutto in pochi attimi, ma ci sono volute ore per poter tornare alla normalità. Intere strade bloccate, perquisizioni nei palazzi, bambini delle scuole limitrofe costretti ad aspettare prima di poter ritrovare i genitori. L’uccisione dell’uomo con la mannaia non basta a fermare l’allarme. Un robot del reparto artificieri viene utilizzato per verificare la presenza di una cintura esplosiva. È solo una scatola di cartone con fili elettrici: una macabra finzione. Ma anche questo non è sufficiente per togliere lo stato d’assedio. Alcune testimonianze parlano di un secondo uomo, un complice in fuga. Le autorità temono il rischio di “ surattentat”: attentati a catena, secondo uno schema ormai collaudato entrato in azione il 13 novembre. Fino a sera, la presenza delle forze dell’ordine rimane ai massimi livelli nel diciottesimo arrondissement, il più popolato della capitale.
È in questo quartiere che doveva essere organizzato l’attentato mancato del 13 novembre, così com’è stato rivendicato dal comunicato dell’Is. L’attacco non c’è mai stato, forse per la riluttanza di uno dei kamikaze del commando. Nel giubbotto mimetico dell’uomo che ha tentato di assaltare il commissariato, gli investigatori hanno trovato un disegno della bandiera del Califfato, una rivendicazione in arabo scritta a mano in cui afferma di agire per «indicare i morti in Siria» e giura fedeltà all’autoproclamato califfo Al-Baghdadi. «Elementi inequivocabili », secondo il procuratore François Molins, che ha affidato l’inchiesta per «tentato omicidio di pubblico ufficiale a scopo terroristico » alla sezione antiterrorismo.
Ma i dubbi sono ancora molti. A cominciare dall’identità dell’uomo che non aveva documenti su di sé. Ha firmato la rivendicazione con un nome diverso da quello trovato nell’archivio della polizia criminale dopo i prelievi. Gli investigatori sono infatti risaliti a un Sallah Ali, nato a Casablanca nel 1995, schedato nel 2013 per una storia di furto in banda organizzata nel sud della Francia. L’età però non corrisponde alla fisionomia del terrorista, che avrebbe almeno trent’anni. Gli investigatori stanno esaminando il cellulare ritrovato nei vestiti. Secondo i primi accertamenti, l’apparecchio contiene messaggi in arabo e tedesco, senza che però ci siano prove di un attacco organizzato con altri complici. Per la ministra della Giustizia, Christiane Taubira, «non si tratta di persona legata alla radicalizzazione islamica», mentre proprio ieri il super-ricercato francese Salim Benghalem, uno dei dieci uomini più pericolosi dell’Is secondo le autorità Usa sospettato di essere uno dei mandanti dell’attacco a Charlie Hebdo, è stato condannato in contumacia dal tribunale di Parigi a 15 anni di reclusione.
Diverse testimonianze nel quartiere contraddicono la versione del procuratore Molins. «Ero a pochi passi da lì. Quell’uomo non ha avuto in alcun modo un atteggiamento aggressivo», racconta in lacrime Charlotte, che ha assistito alla sparatoria. «Ho visto perfettamente quell’individuo — continua — . Non correva, aveva le mani alzate e soprattutto nessun coltello, forse l’ha lasciato cadere prima non so, ma posso assicurarvi che in quel momento non era armato ». Come tanti altri testimoni la ragazza stravolta dice anche di non averlo mai sentito gridare “Allah Akbar”, Allah è grande, e denuncia una “psicosi” che ormai investe non solo gli abitanti di Parigi ma anche le stesse forze dell’ordine.
È l’ennesimo segnale che un anno dopo gli attentati di Charlie Hebdo la Francia non si è ancora abituata a convivere con la minaccia permanente che si nasconde dietro ogni angolo, ogni persona.
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