by Chiara Cruciati, il manifesto | 9 Gennaio 2016 18:09
Siria. Madaya è il fallimento dell’accordo tra Damasco e opposizioni, modello al futuro negoziato. L’inviato dell’Onu de Mistura è volato nella capitale per preparare il dialogo in vista dell’incontro di Ginevra del 25 gennaio
Madaya come Yarmouk, comunità sotto assedio interno ed esterno e affamate dalla guerra civile siriana. Le immagini dalla città a meno di 10 km a sud di Zabadani, al confine con il Libano, ricordano la vergogna delle foto che due anni fa raccontarono la tragedia del campo profughi palestinese a Damasco. La situazione è quasi la stessa: opposizioni all’interno, truppe governative e combattenti di Hezbollah all’esterno, un cessate il fuoco che impiega troppo tempo a diventare reale.
Dal primo dicembre, secondo Medici Senza Frontiere, sarebbero già 23 le vittime della fame, oltre 40mila i civili ancora bloccati a Madaya nonostante l’accordo stipulato a settembre tra il governo di Damasco e le opposizioni (gli islamisti del Fronte al-Nusra e Ahrar al-Sham e i moderati dell’Esercito Libero Siriano): le prime evacuazioni di miliziani anti-Assad da Zabadani verso la Turchia è cominciata a fine dicembre ma Madaya resta sotto assedio.
Giovedì Damasco ha dato il via libera all’Onu, l’ingresso necessario a distribuire cibo e acqua sarebbe previsto per lunedì. Eppure è urgentissimo: la gente sta letteralmente morendo di fame, costretta a sopravvivere con sale e acqua o ingurgitando le foglie degli alberi. I prezzi sono saliti alle stelle, 34 dollari per un chilo di zucchero e riso, 47 per un chilo di farina: i prodotti alimentari vengono rivenduti a costi impossibili da chi li ha nascosti in precedenza, che siano altri civili che fanno sciacallaggio o miliziani anti-Assad.
A raccontarne con foto e video il calvario è la campagna online #Respond. «Morire in fretta per un missile dell’esercito siriano è più misericordioso che morire lentamente – racconta ad al Monitor l’attivista Manal al-Abdullah – Stiamo morendo in questa grande prigione, non ci autorizzano ad andarcene o a procurarci il cibo. Chiediamo a governo e opposizioni di tenere i civili fuori dalle loro dispute».
Il mondo, in ritardo di mesi, oggi accusa Damasco e i libanesi di Hezbollah di impedire l’ingresso di aiuti e di intrappolare i civili per impedire la fuoriuscita dei miliziani nelle settimane calde della battaglia per Zabadani. Hezbollah reagisce: su al Manar il gruppo dice di aver consegnato ad ottobre numerosi camion di cibo (confiscati però dalle opposizioni) e di averne in programma altri in questi giorni e accusa Ahrar al-Sham, al-Nusra e Esercito Libero di tenere in ostaggio i civili, sparare a vista a chiunque tenti di fuggire e controllare il poco cibo a disposizione per rivenderlo a prezzi astronomici.
C’è da chiedersi a quanti attori della crisi mediorientale interessi l’indicibile dolore dei civili. Perché a Madaya ognuno si gioca la propria credibilità: accordo locale siglato sotto l’egida Onu, dovrebbe fare da modello alle altre tregue tra governo e opposizioni nel resto del paese. Ma non pare funzionare, uno stallo che getta ombre sul negoziato che si aprirà il 25 gennaio a Ginevra. Ieri l’inviato Onu per la Siria de Mistura, è volato a Damasco per preparare il dialogo, mentre resta silente il fronte delle opposizioni riunitosi a Riyadh a dicembre ma dai contorni ancora fumosi.
Con l’attenzione concentrata su Iran e Arabia saudita, passa in secondo piano il rapporto del governo Usa che detta i tempi della exit strategy: creazione di un governo di transizione entro aprile, elezioni parlamentari e presidenziali ad agosto, nuova costituzione entro novembre ma uscita di scena del presidente Assad a marzo 2017. Una timeline in linea con le previsioni di Mosca ma difficilmente digeribile per chi chiede l’immediato allontanamento di Assad, ovvero le opposizioni moderate.
Il confronto tra attori regionali prosegue anche in Iraq dove la Turchia approfitta dell’Isis per giustificare la presenza nella base militare di Bashiqa, a 20 km da Mosul. Giovedì lo Stato Islamico ha sferrato un attacco contro truppe turche, peshmerga e unità sunnita irachena Hashd al-Watani addestrata da Ankara. 18 gli islamisti uccisi, nessuna vittima tra i ranghi turchi. Quanto basta al presidente Erdogan per calpestare la richiesta di ritiro da parte di Baghdad: l’attacco dimostra la legittimità della presenza turca in Iraq, ha detto ieri. Mosul rimane centrale: secondo Iraqi News, i miliziani dell’Isis hanno abbandonato la sede in città per timore dei raid e si nascondono ora nelle zone residenziali, ennesima minaccia ai civili intrappolati nella morsa del «califfato».
Nella morsa della crisi Teheran-Riyadh, invece, resta Baghdad che teme un acuirsi dei settarismi interni a causa dello scontro tra asse sunnita e asse sciita. L’escalation provocata dall’Arabia saudita segue alla calcolata formazione della coalizione islamica anti-Isis sponsorizzata dai Saud e di cui fanno parte solo paesi sunniti. Fuori Baghdad e Damasco, i governi che il «califfo» lo combattono sul terreno, con un obiettivo: rafforzare l’asse sunnita a scapito del rivale.
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