La storia del partigiano Karim a Kobane

by Simone Pieranni, il manifesto | 17 Gennaio 2016 9:24

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Nell’epoca durante la quale si è apparentemente sentenziata la fine della distinzione tra destra e sinistra, nel periodo storico in cui le persone sembrano non avere più bisogno di spazi fisici da sottrarre al tracimare del capitale, nella situazione internazionale che vede alleanze mutare, disgregarsi per poi tornare a vivere e ricambiare, un ragazzo nato nel 1989 da padre italiano e madre marocchina, decide di avere delle idee politiche precise. Si definisce comunista, frequenta gli spazi sociali della sua città, nella quale torna da giovanissimo per vicende familiari. Ha dovuto lasciare il Marocco, dove ha vissuto la sua infanzia.

In Italia, spinto da un impegno acquattato nei geni paterni, si interessa a quanto accade nel mondo e decide di partecipare ad azioni di solidarietà in una parte del pianeta che per molti suoi coetanei è qualcosa che potrebbe piazzarsi perfino nell’iperuranio. Ma non solo per loro, se è vero che «il medio oriente qui da noi non riscuote nessuna fortuna». Giunto in quei luoghi, si trova faccia a faccia con un evento storico multiforme nella sua genesi e drammatico nel suo presente. La guerra, che in Siria assume circostanze semplici nella sua dualità di vita e di morte mentre qualche migliaio di chilometro più a ovest arriva ad ammantarsi perfino dell’orrenda nomea di «scontro di civiltà».

Questo ragazzo nato nel 1989 scopre che quanto sta facendo, non basta. Non basta portare cibo, vestiti e solidarietà. O informarsi. O testimoniare. E quando due bambini soldato, di otto e dodici anni, gli si fanno incontro nei pressi di una città assediata, stanca, distrutta, martoriata ma ancora con un filo di ossigeno, Kobane, capisce che deve lasciare qualcosa e mettersi al posto di quei due bambini. Karim Franceschi racconta così le motivazioni che lo hanno spinto ad andare per ben due volte nell’arco di un anno a Kobane.

A combattere in sostegno dei kurdi del Rojava, esperimento sociale di confederalismo democratico, progetto socialista e femminista in un mondo percorso dal capitalismo occidentale e dal tentativo dell’Isis di riportare un ampio territorio sotto un ferreo controllo religioso.

Rojava è un’eresia totale. Si capisce — quindi — che anche dalle nostre parti dove aleggiano i «buoni», non sia facile capire un’eresia, non a caso la prima domanda che ormai è abituato ad ascoltare è: «perché sei andato a combattere in una guerra di altri?» Proprio perché viviamo in epoca di disimpegno e riduzione della tragedia, verrebbe da dire. Karim ha deciso di viverla fino in fondo la tragedia, trasformandosi in una recluta, poi, dopo una sola settimana di preparazione, in soldato in prima linea delle truppe volontarie di difesa di Kobane dello Ypg, poi difensore di un fortino assediato e liberato solo con l’aiuto delle bombe dall’alto della coalizione a guida americana, fino a trasformarsi in un cecchino. «Non è una guerra dei kurdi del Rojava, specifica, e neanche dei siriani, è una guerra dell’umanità».

I mostri, quelli dell’Isis, sono dall’altra parte. Karim ne vive l’esistenza sotto forma di colpi di mortaio, di inesauribile capacità di reclutare e spuntare all’improvviso, costringendo heval Marcello (il suo nome di battaglia) e gli altri della brigata a non chiudere gli occhi anche per tre giorni interi. Sparare e basta. Sparare e perdere la concezione del tempo. Gli uomini dell’Isis — «il male», li chiama Karim — li vede per lo più morti: carbonizzati dai raid, o in grottesche pose dopo aver ricevuto lo sfogo dei caricatori kurdi (di fabbricazione russa o americana). Qualcuno di quegli uomini dell’Isis, potrebbe averlo ammazzato perfino lui.

È un percorso straordinariamente rapido di crescita quello della guerra. Karim sa bene dove è finito: sa bene con chi sta, per cosa e perché. Ma nella guerra percepisce i limiti, educa l’ego a fermarsi, perché in ballo non c’è più solo la sua vita (come se non bastasse quella). Nelle ragioni della sua presenza lì c’è sicuramente un’origine, remota: riecheggia la presenza di un padre morto quando aveva 12 anni, che aveva militato nei partigiani contro i nazisti. Oggi suo padre avrebbe 86 anni.

Karim sapeva bene già prima di andare a Kobane cosa significa prendere parte, ma è pur sempre un ragazzo di 26 anni. Oscillante tra paure e «voglia di primeggiare», tra l’adrenalina di sparare per la prima volta con un kalashnikov, rivelandosi per altro un tiratore infallibile e il timore di fare una «figura di merda» appena arrivato tra i suoi nuovi compagni. Mentre perlustra un quartiere riconquistato, scopre nella postazione del cecchino dell’Isis la presenza di alcuni pannoloni da adulto. Neanche il tempo per pisciare, se devi sottomettere in nome di dio.

Pensa questo Karim, quando ancora non sa che il cecchino da lì a poco, sarà lui. Processi esistenziali, racchiusi nello spazio di poche notti insonni. E in quel caso la forza, sarà la capacità di tirare una linea a segnare un confine netto tra lui e gli altri. Assassini, o potenziali tali. Ma per ragioni ben diverse, da ricercare scavando in profondità, come un minatore che non vede la luce.

Questo e altro Karim ha deciso di raccontarlo in un libro, avvalendosi della scrittura del giornalista di Repubblica Fabio Tonacci. Si intitola Il Combattente, storia dell’italiano che ha difeso Kobane dall’Isis (Bur, 17 euro). «Ora che sono tornato, racconta ai giornalisti a Roma, voglio dare una mano alla causa del Rojava con questo libro». Le idee sono chiare e forse scontenteranno chi si aspettava chissà quali analisi o traiettorie geopolitiche. Karim ha visto la guerra, da soldato.

E come tale ragiona: «Ho voluto fare questo libro per allargare ad un pubblico più ampio la possibilità di conoscere cosa succede in quelle zone». Testimonianza con un’intuizione importante: «Spero che questo libro verrà letto dai miei coetanei». Perché sappiano, racconta, cosa significa combattere per la democrazia e difendere una causa giusta, quella del Rojava, contro tutto e tutti: contro «il male», che si manifesta nell’Isis e che richiede le armi.

Contro altre forme di male, che necessitano idee, come accade per il comportamento della Turchia e più in generale delle grandi potenze, la cui agenda non guarda in faccia le vite ed è spesso pronta ad esaltare l’unica «democrazia del medio oriente», che pure non esita ad annientare Gaza, di tanto in tanto. E da giovane Karim racconta che non aveva avuto alcuna esperienza militare in precedenza, che in Siria ha visto morire altre persone, alcune delle quali amici, compagni. E che prima di Kobane, aveva sparato solo alla Playstation. E che non ha intenzione di tornare in Siria, ora vuole fare qualcosa qua. Quando gli chiedono, infatti, «ora cosa farai?», lui risponde tranquillo: «Attività politica, quello che facevo prima».

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