by ILVO DIAMANTI, la Repubblica | 25 Gennaio 2016 10:29
UN giorno dopo l’altro, l’Europa appare sempre più divisa. D’altronde, è difficile affidare il progetto unitario a una moneta. Tanto più in tempi di crisi economica e finanziaria. Perché se l’Europa si riduce a un euro, allora si svaluta. E l’anti-europeismo si allarga. Tuttavia, la questione europea diventa critica quando vengono messi in discussione i confini. Meglio: quando vengono ripristinati i controlli sui confini. Non per caso, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, a Davos, ha espresso il timore che l’emergenza prodotta dai flussi di migranti possa compromettere il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone tra gli Stati dell’Unione. Perché in quel caso verrebbe — implicitamente — rimesso in discussione il progetto di costruzione europea. Lo stesso timore è stato ribadito dal premier Matteo Renzi. D’altronde, l’euro, come i mercati, non ha confini. Può circolare comunque e dovunque. Le persone no. E i limiti imposti ai migranti si riproducono e rimbalzano anche sui residenti. Perché le frontiere sottolineano la sovranità degli Stati nazionali rispetto a quella europea. In definitiva: riflettono — e accentuano — la debolezza dell’Europa. Come progetto e come soggetto.
Tuttavia, sarebbe sbagliato trattare i “confini” semplicemente come un problema. Da superare e, possibilmente, eliminare. Per dare forza alla sovranità e all’identità europea.
Le frontiere e i confini: servono. Sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. Come la geografia, le mappe. Servono a orientarci, a rappresentare il mondo intorno a noi. I cambiamenti dei confini — e della geografia — riflettono, a loro volta, i cambiamenti nella distribuzione e nell’organizzazione del potere, su base territoriale. Il nostro dis-orientamento, negli ultimi decenni, negli ultimi anni, riflette il declino, in alcuni casi, il dissolversi dei nostri punti di riferimento. La trasformazione rapida e violenta del limes, com’era definito il confine (in continua evoluzione) dell’Impero romano. (E come recita il titolo di una nota rivista di geopolitica: liMes, appunto). Noi, infatti, siamo orfani dei muri che per decenni hanno (de)marcato il nostro mondo. Eppure, al tempo stesso, gli davano senso, oltre che rappresentazione. Il muro di Berlino, a Est. Il Mediterraneo a Sud. Erano frontiere politiche, ma anche sociali e culturali. Ideologiche. Oggi non ci sono più. A Est: dallo sfaldamento dell’Unione Sovietica è ri-emersa la Russia. Che, tuttavia, non costituisce più, come prima, “l’altro” polo del Mondo. Ma “un” polo, per quanto importante. Mentre, nel caso del Mediterraneo, non si tratta più di un muro. Non ci separa (e non ci difende) più dall’Africa, né dal Medio- Oriente. È, invece, un confine stretto. Mentre il mondo è divenuto sempre più largo. E sempre più vicino. Incombe su di noi. La globalizzazione, per riprendere una nota definizione di Antony Giddens, è stretching spazio-temporale. Allungamento dei processi e delle relazioni nello spazio e nel tempo. E, dunque, perdita dei confini. Perché tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, anche molto lontano da noi, può avere riflessi immediati qui. Adesso.
Anche perché tutto avviene e scorre sotto i nostri occhi. Riprodotto e amplificato dai media. In diretta. E tutto rimbalza sulla rete. A cui tutti possono accedere. In tempo reale. Per questo, i confini non ci possono difendere. Ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di confini. Di frontiere. Perché, come ha sostenuto Régis Debray, in un testo alcuni anni fa (dal titolo significativo Eloge des frontières, Gallimard 2010, pubblicato in Italia da ADD, 2012): “…una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l’epidemia dei muri”. (D’altronde, neppure i muri possono frenare i movimenti di persone, quando si tratta di esodi spinti dal terrore e dalla fame). Né, tanto meno, possono — né vogliono — fermare i flussi economici e monetari. Per questo, tanto più per questo, abbiamo bisogno di frontiere. Per dare ordine alla nostra visione del mondo. Per sentirci sicuri. Per avere la sensazione che esistano autorità in grado di governare la società. Capaci di esercitare la sovranità nel territorio in cui viviamo.
Perché, in fondo, è questo il fondamento — e il significato — dello Stato. Senza confini e senza frontiere, noi rischiamo di perderci. Di divenire, noi stessi, eterni migranti. Alla ricerca di una terra. Non “promessa”. Una terra e basta. Noi abbiamo bisogno di mappe per orientarci. Il trattato di Schengen è importante. Perché supera e apre i confini “interni” all’Europa. Ma, al tempo stesso, marca i confini “esterni”. Dentro i quali è possibile la libera circolazione. In base ai quali è possibile negoziare con gli “altri”. Così, de-finisce (cioè, delimita) l’Europa. Lo spazio entro il quale non abbiamo bisogno di passaporti da esibire alle frontiere. Perché non ci sono controlli alle frontiere. Anzi, non ci sono frontiere. Lo spazio dove, cioè, possiamo dirci — e sentirci — europei. Non uno Stato nazionale, ma una Confederazione di Stati nazionali. Che condivide alcuni interessi ma, anzitutto, un sentimento comune.
Per questo, come hanno osservato, polemicamente, Lagarde e Renzi, le limitazioni im-poste alle frontiere di alcuni Stati europei rischiano di provocare il fallimento del Trattato di Schengen. E, insieme, del progetto europeo. Perché l’Europa, questa Europa, è senza confini. L’Europa: dove comincia e dove finisce? Chi ne fa parte? Chi ne farà parte? Difficile comprenderlo. Tanto più se, invece di indicare un limes, un territorio condiviso, che distingua noi dagli altri, i governi nazionali sono impegnati a erigere barriere interne all’Europa, invece di delineare e condividere quelle esterne. E in questo modo confermano e, anzi, accentuano l’in-capacità di costruire l’Europa.
Perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com’è possibile costruire un’identità europea? Sentirsi e dirsi europei?
La globalizzazione è allungamento dei processi e delle relazioni, nello spazio e nel tempo
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