by THOMAS PIKETTY, la Repubblica | 23 Gennaio 2016 8:55
MENTRE crescono i dubbi sulla Cina e sul suo sistema finanziario, sempre più persone guardano all’India come alla possibile locomotiva dell’economia mondiale negli anni e nei decenni a venire. La crescita di Delhi nel 2016-2017 dovrebbe sfiorare l’8%, come nel 2015, contro il 6% della Cina. Certo, l’India parte da un livello più basso, con un potere d’acquisto medio di circa 300 euro al mese per abitante (contro i 700 della Cina e i 2mila dell’Unione Europea), ma a questo ritmo potrebbe colmare il distacco dall’Europa in meno di 30 anni (15 per la Cina).
Aggiungiamo che la demografia gioca a favore dell’India: secondo l’Onu, la popolazione indiana entro il 2025 dovrebbe superare nettamente quella cinese (che sta già invecchiando e diminuendo).
Nel XXI secolo, l’India diventerà la prima potenza mondiale per popolazione, e forse anche la prima potenza mondiale in assoluto. Tanto più che può contare su solide istituzioni democratiche ed elettorali, libertà di stampa e Stato di diritto.
IL CONTRASTO con la Cina, che ha appena espulso una giornalista francese (senza che Francia ed Europa trovassero nulla da ridire) e il cui modello politico autoritario appare tanto indecifrabile quanto imprevedibile nella sua evoluzione a lungo termine, è stridente.
Le sfide che deve affrontare l’India restano però colossali, a cominciare dal problema delle disuguaglianze. Si fa molta fatica a ritrovare le cifre della crescita nelle inchieste sui consumi tra le famiglie indiane, probabilmente perché una parte sproporzionata dell’arricchimento è intercettata da una ristrettissima élite non adeguatamente coperta dalle inchieste. Dal momento che il governo indiano ha interdetto l’accesso ai dati delle imposte sul reddito all’inizio degli anni 2000 (la Cina non li ha mai pubblicati, però gli introiti fiscali che raccoglie sono superiori), è difficile dire qualcosa di preciso.
Quel che è certo è che gli investimenti pubblici in scuola e sanità rimangono nettamente insufficienti, e questo è un elemento che mina alla base il suo modello di sviluppo. Un esempio emblematico è il sistema sanitario pubblico, che può contare appena sullo 0,5% del Pil contro il 3% della Cina. La verità è che il partito comunista cinese è riuscito, meglio delle élite democratiche e parlamentari indiane, a mobilitare risorse significative per finanziare una strategia di investimenti sociali e servizi pubblici.
Ma solo una politica di questo tipo potrà permettere all’insieme della popolazione di beneficiare della crescita e potrà assicurare uno sviluppo duraturo del paese. La mancanza di trasparenza e l’autoritarismo del modello cinese lo condannano al fallimento, se non ci sarà un’apertura. Ma il modello democratico indiano deve ancora dimostrare la sua efficacia, possibilmente senza passare per le crisi e gli scontri che sono stati necessari, nel XX secolo, per imporre alle élite occidentali le riforme sociali e fiscali indispensabili.
La sfida più importante, spesso trascurata in Occidente, è legata al lascito del sistema delle caste, a cui si aggiunge il rischio di scontri identitari fra la maggioranza induista e la minoranza musulmana (il 14 % della popolazione, 180 milioni di persone su 1,2 miliardi di abitanti), attualmente rinfocolati dal partito nazionalista indù, il Bharatiya Janata Party (Bjp, al potere dal 1998 al 2004 e poi di nuovo dal 2014).
Riassumiamo. Nel 1947, l’India abolisce ufficialmente il sistema delle caste, e in particolare mette fine ai censimenti per casta condotti dai colonialisti britannici, accusati di aver cercato di dividere l’India e irrigidire le sue classi sociali per meglio dominare e controllare il paese. Il governo sviluppa tuttavia un sistema di discriminazione positiva, nelle università e nel pubblico impiego, per i ragazzi provenienti dalle caste più basse (gli Sc/St, che sta per Scheduled Castes/ Scheduled Tribes, ex intoccabili discriminati, quasi il 30% della popolazione). Ma queste misure suscitano crescente frustrazione tra i ragazzi provenienti dalle caste intermedie (gli Obc, Other Backward Classes, circa il 40% della popolazione), schiacciati tra i gruppi più sfavoriti e le caste più alte. A partire dagli anni Ottanta, diversi Stati indiani estendono le politiche di discriminazione positiva a questi nuovi gruppi (a cui possono unirsi i musulmani, esclusi dal sistema iniziale).
I conflitti intorno a questi meccanismi sono tanto più vivi in quanto i vecchi confini tra le caste non sono così netti, e non sempre (anzi) corrispondono alle gerarchie di reddito e patrimonio. Il Governo federale alla fine decide di fare chiarezza su queste complesse relazioni organizzando, nel 2011, un censimento socioeconomico delle caste (il primo dal 1931).
Il tema è incendiario e si attende ancora la pubblicazione completa dei risultati. L’obbiettivo è di trasformare gradualmente queste politiche di discriminazione positiva in regole fondate su criteri sociali universali quali il reddito familiare o il territorio di provenienza, come i software di accesso ai licei o alle università (o per certi aiuti alle imprese) che in Francia cominciano timidamente ad accordare punti supplementari agli studenti borsisti o a quelli provenienti da istituti o territori sfavoriti.
In un certo senso, l’India sta tentando semplicemente di far fronte, con i mezzi dello Stato di diritto, al problema dell’uguaglianza reale, in una situazione in cui la disuguaglianza di status ereditata dalla vecchia società e dalle discriminazioni passate è estrema e minaccia di degenerare in tensioni violente. Sbaglieremmo enormemente se pensassimo che queste sfide non ci riguardano.
( Traduzione di Fabio Galimberti)
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2016/01/la-grande-scommessa-del-gigante-indiano/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.