La frattura della Storia

by Lia Tagliacozzo, il manifesto | 26 Gennaio 2016 10:59

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Giorno della memoria. Lutti famigliari e collettivi. Il 27 gennaio ha consentito alla classe dirigente della Seconda Repubblica di evitare il confronto con il 25 aprile. Un’esigenza «lenitiva» che ha puntato sul ricorso alle emozioni a scapito della conoscenza

Ragionare sulla Shoah e il progetto di distruzione industriale di massa in occasione del 27 gennaio è come cercare di contare i cerchi nell’acqua quando vi si getta un sasso: onde grandi e piccole che si rincorrono, si espandono, per poi sparire, fagocitate dalla vita che ricomincia a occuparsi delle solite cose. Concetti che cercano di trovare una loro sistemazione ma per i quali non basta un giorno, o una settimana, di ricordo. Anche l’impresa, apparentemente insensata, di contare cerchi nell’acqua ha bisogno di riflessione.

Un cerchio, un’onda: se si digita su Google la dicitura «giorno della memoria 2016» si ottengono in questo periodo più di novecentomila risultati. L’evidenza — come qualsiasi lettore di giornali o frequentatore di televisioni e radio sa bene — è che il «giorno della memoria» è entrato nel calendario civile del nostro paese. È stato già scritto che la scelta del 27 gennaio, data della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz — dove migliaia di cittadini italiani ebrei vennero assassinati — ha diluito la specificità dell’apporto italiano alla persecuzione.

Processi assolutori

Giovanni De Luna nel bel libro La Repubblica del dolore scrive: «Proprio perché più europea e meno italiana la scelta di quella data contribuì a disinnescare molte tensioni, attenuandone la portata emotiva ma anche ridimensionandone il significato simbolico». Se, infatti, «la memoria pubblica è un «patto» in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato», il 27 gennaio, proprio perché non impegnativo, ha consentito alla classe dirigente della Seconda Repubblica di evitare il confronto con il 25 aprile, data fondante dell’Italia repubblicana. Ed è funzionale a questa esigenza lenitiva e assolutoria che nel discorso pubblico sia divenuto sempre più forte il ricorso alle emozioni a scapito della conoscenza storica.

Cerchi che si allargano: inizia, timidamente, ad affacciarsi la consapevolezza che il conflitto tra «storia» e «memoria» possa essere superato in direzione di una inevitabile integrazione di entrambe, ma il calendario degli eventi in programma anche quest’anno non sembra prenderne nota e il ricorso all’emozione ancora prevale.

Sassi, cerchi, onde: per la collettività ebraica italiana l’imponente coinvolgimento istituzionale nelle celebrazioni del «giorno della memoria» è divenuto una grande occasione di riconoscimento e reintegrazione in quel «patto della memoria» da cui furono esclusi per decenni. L’Italia resta il paese dove il processo di abrogazione della legislazione antiebraica fascista del 1938 iniziò nel 1943 e si concluse alla fine degli anni ottanta, anni in cui il ricordo della specificità della persecuzione antiebraica stentava a farsi largo nella memoria pubblica. Anni in cui la Shoah rimane ancora un fatto sostanzialmente privato degli ebrei italiani e la misura della condivisione è data al massimo dal coinvolgimento delle amministrazioni cittadine negli anniversari che ricordano le vicende locali. Lo sterminio degli ebrei e il ruolo avuto dal fascismo infatti non furono tra gli eventi su cui è stato costruito l’albero genealogico della nazione. Ma poiché «i fondamenti di quel ’patto’ cambiano a seconda delle varie ’fasi’ che scandiscono i processi storici di una nazione — scrive ancora De Luna — ogni volta cambiano i suoi contraenti e il suo contenuto».

Holocaust Menorah di Aaron Morgan

Così dal 2001, primo anno di celebrazione «del giorno della memoria», le cose sono cambiate. Adesso di Shoah — che in ebraico significa distruzione — si parla molto, forse troppo, spesso male.
Certo è che le celebrazioni vengono vissute dalla collettività ebraica italiana come occasione di riconoscimento in un contesto istituzionale che l’ha accolta e «digerita» solo nella discutibile accezione di «vittima». Oggi però l’imperativo «mai più» che contrassegna l’impegno in buona fede dei tanti che si mobilitano nel ricordare lo sterminio di milioni di vite viene reso impotente e diviene inefficace se il patto che costituisce lo spazio pubblico espelle il processo storico che ha prodotto il loro essere «vittime». D’altro canto è proprio rendere le sole emozioni protagoniste del racconto pubblico che azzera le responsabilità. La condivisione di valori si restringe così a un omaggio che spesso ignora le specificità della collettività che si è chiamati a ricordare. E nulla aggiunge il 27 gennaio alla conoscenza di chi siano stati realmente e storicamente gli ebrei negli anni della dittatura fascista e di chi siano oggi.

Ancora un cerchio, e un’onda. La posizione della collettività ebraica italiana è che il suo apporto alle celebrazioni del 27 gennaio sia di sostegno alle iniziative pubbliche: non sono loro ad avere bisogno di «ricordarsi di ricordare». Eppure l’istituzione del giorno della memoria avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nel riconoscimento non solo del loro ruolo di cittadini storicamente partecipi di una memoria pubblica condivisa ma nel trasformare il lutto privato di una minoranza in un ’lutto nazionale’. Ma a questa incertezze aggiunge forse un contributo specifico proprio l’approccio al lutto della cultura ebraica tradizionale.

Altro cerchio, altra onda. Nella tradizione ebraica, il ricordo dei lutti collettivi tende a condensarsi intorno a poche date di celebrazione ma, per quel che attiene alla memoria specifica della Shoah, la pratica ebraica non si è ancora sedimentata in un’occasione unica e riconosciuta: per alcuni è il digiuno del 10 del mese di Tevet, che cade solitamente a dicembre, e ricorda l’inizio dell’assedio di Gerusalemme nel quinto secolo prima di Cristo. Per altri, soprattutto in Israele, è il primaverile Yom ha Shoah – il giorno della Shoah. In molte famiglie è invece uso recitare il rituale della Rimembranza che si celebra al termine della cena pasquale in ricordo dell’insurrezione del ghetto di Varsavia nel 1943 che iniziò proprio il giorno di Pesach, la pasqua ebraica. L’incidenza delle tre date dipende dai paesi e dalle differenti abitudini delle tante comunità ebraiche.
Ma il cerchio si allarga e le onde si moltiplicano. È curiosamente diversa l’attenzione posta nell’ebraismo alla tempistica del lutto individuale: la normativa ebraica in questo caso è estremamente attenta al conteggio dei giorni che scandiscono la settimana, il mese e poi l’anniversario del decesso. Ma gli ebrei, quelli in carne e ossa, quelli «vivi», ancora oggi ricordano la morte nei campi dello sterminio nazista come fatto reale e concreto della perdita di una persona cara di cui spesso sono restate, e resteranno per sempre, ignote il luogo e data dell’uccisione. Per gli ebrei «vivi» si tratta di un singolo essere che è stato padre o madre, nonno o nonna, zio o zia. Esseri umani concreti di cui rimangano nella vita delle famiglie oggetti e racconti, fotografie e aneddoti. A volte, ricette di cucina. Per gli ebrei vivi è un lutto individuale, familiare oltre che collettivo.

Diari intimi e luoghi pubblici

Cerchi, e domande, che si allargano: come tenere insieme il lutto individuale con quello di una collettività di minoranza e inserirlo in una memoria nazionale? Come tessere continuità, restituire dignità e farsi carico della responsabilità di 6806 deportati dall’Italia di cui 5969 sono stati uccisi e solo 837 sono tornati? Come far incontrare il lutto degli ebrei italiani con quello degli italiani «altri»?

Una risposta piccola ma illuminate viene da un’iniziativa giunta quest’ anno alla sua quinta edizione, si chiama Memorie di famiglia — i giovani tramandano le storie dei loro nonni organizzata presso il centro ebraico di Roma Pitigliani. Lì, il 27 gennaio – data di legge, parlamento e istituzioni — nello stesso momento in cui le scuole, la televisione e i giornali parlano della Shoah, giovani dai dodici ai venti anni leggono le storie delle proprie famiglie. Documenti tratti da diari privati, ricostruzioni successive, racconti, si alternano letti da un nipote o un pronipote. Giovani e bambini che prendono la parola e raccontano la propria storia. Altri ragazzi cantano e recano conforto e sollievo alla massa dei ricordi che i nonni in sala si sentono raccontare dai propri nipoti. Ricordi di internati militari, ebrei in fuga, uccisi o salvati trovano posto nella catena della generazioni che, come cerchi nell’acqua, si susseguono.

Giorgio Caviglia e Maria Bove scrivono in L’eco del silenzio, il trauma della Shoah consegnato alle generazioni future, edito in questi giorni da Giuntina: «Riflettere sulla trasmissione del trauma significa comprendere la portata di determinati eventi, comprenderne l’estensione, cercare di contare i cerchi nell’acqua che si propagano al lancio del sasso sulla superficie del mare, cercando di distinguere quello che dipende da quel sasso da quello che è il frutto del movimento di un mare che può essere più o meno agitato». Cerchi nell’acqua che tentano risposte.

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