Il rapporto che ha ispirato il presidente: dimezzando l’evasione 3 punti di Pil in più

by Enrico Marro, Corriere della Sera | 2 Gennaio 2016 18:46

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ROMA A rimettere la piaga dell’evasione fiscale al centro dell’attenzione ci aveva provato la Confindustria, titolando «L’evasione blocca lo sviluppo» il suo ultimo rapporto messo a punto dal Centro studi diretto da Luca Paolazzi e presentato il 16 dicembre alla presenza del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Un volume dove si analizza questa anomalia italiana che, sottraendo alle casse dello Stato più di 120 miliardi di euro all’anno (122,2 nel 2015, stima il rapporto) ha due conseguenze principali: zavorra la crescita e fa pagare più tasse ai contribuenti onesti. Questa denuncia non aveva avuto però sui media il risalto che forse meritava. Ma ci ha pensato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a rilanciarla, nel suo discorso di fine anno.
«Un elemento che ostacola le prospettive di crescita è rappresentato dall’evasione fiscale. Secondo uno studio di Confindustria, nel 2015 l’evasione fiscale e contributiva in Italia ammonta a 122 miliardi di euro. 122 miliardi! — ha ripetuto Mattarella in tv —. Vuol dire 7 punti e mezzo di Pil. Dimezzando l’evasione si potrebbero creare oltre 300 mila posti di lavoro: gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti. Tasse e imposte sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero». È stato questo uno dei passaggi più politici, forse l’unico nel quale si può leggere non solo il richiamo a un maggior senso civico che ha permeato il discorso, ma anche una sollecitazione al governo.
Confindustria calcola che il Pil potrebbe aumentare del 3,1% e gli occupati di oltre 335 mila unità se solo si riuscisse a dimezzare l’evasione restituendo ai contribuenti le risorse recuperate sotto forma di taglio delle tasse. Per riuscirci bisognerebbe aggredire tutte le voci dei 122 miliardi di evasione: 40 miliardi di Iva non pagata; 23,4 di Irpef; 5,2 di Ires; 3 di Irap; 11,4 di altre imposte indirette; 4,9 di imposte locali e 34,4 di contributi previdenziali.
Le aree dove c’è più attività in nero, ricorda Confindustria, sono i servizi (32,9% del valore aggiunto del settore), il commercio, trasporti, attività di alloggio e ristorazione (26,2%), le costruzioni (23,4%), le attività professionali (19,7%). Quanto all’Iva, l’imposta più evasa, l’Italia si colloca al secondo posto in Europa dopo la Grecia, con un gettito evaso pari al 33,6% del dovuto. Certo, pesa il fatto che in Italia ci sono molte più piccole attività, dove è più facile evadere. Ma, sottolinea lo studio, conta anche il fatto che il 99% dei contribuenti rischia di subire un controllo ogni 33 anni (piccole imprese) o 50 anni (professionisti). Risultato: la pressione fiscale è pari al 43,6% del Pil (era il 39,2% nel 2005), ma se si calcola quella «effettiva», cioè al netto dell’economia sommersa, sale al 54,9%.
In Germania il 44,8%, nel Regno Unito il 38,2. Ma «nei paesi anglosassoni — osserva il rapporto — è frequente il ricorso da parte del fisco ai meccanismi di name & shame degli evasori», lo «stigma sociale». In Irlanda, con cadenza trimestrale, vengono pubblicati «i nomi dei soggetti sanzionati in via definitiva per violazioni fiscali». Nel Regno Unito si pubblicano i nomi di chi ha evaso più di 25 mila sterline (35 mila euro circa) e i «profili, anche fotografici, dei soggetti ricercati per evasioni accertate di ingente importo, cui viene dato ampio risalto mediatico».
Enrico Marro
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