Ezgi, Mehmet e i mille anti-Erdogan «È un regime, noi non taciamo più»

Ezgi, Mehmet e i mille anti-Erdogan «È un regime, noi non taciamo più»

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ISTANBUL Non è più la Turchia della giunta militare, però sta tornando una dittatura che perseguita il pensiero libero e chiunque osi criticare il presidente-Sultano islamico-conservatore Recep Tayyip Erdogan. Sono trascorse più o meno quattro decadi dal regime dei colonnelli, ma per Ezgi Basaran (35 anni) e Mehmet Karli (36), la lotta per il libero pensiero mantiene la stessa drammatica urgenza. Moglie e marito assieme in prima linea. «Non c’è libertà oggi nel nostro Paese. Siamo vittime di un regime che non tollera alcun dissenso e utilizza qualsiasi pretesto, incluso l’allarme terrorismo, per far tacere ogni critica interna», denunciano all’unisono. Per loro «democrazia» è ben più di un’idea, un concetto, ma piuttosto una fede comune, un’etica dei rapporti sociali, un impegno che cementa anche il loro legame. «Abbiamo chiamato nostro figlio di due anni Deniz. Lo stesso nome di un famoso studente universitario impiccato dai militari nel 1971 solo perché aveva partecipato ad una manifestazione di protesta».
Lei, dipendente del gruppo che controlla i quotidiani Radical e Cumhuriyet , è tra le centinaia di giornalisti perseguitati. Tanti in carcere, oggi almeno 32. E molti di più licenziati o a rischio impiego. Nel 2015 ne sono stati arrestati 156 per periodi più o meno brevi, quasi 500 investigati. L’accusa? «Siamo descritti come traditori dello Stato solo per il fatto che denunciamo la repressione contro le minoranze, i curdi in testa, o condanniamo in pubblico la repressione delle opposizioni politiche», spiega Ezgi.
Lui se ne sarebbe forse rimasto un distaccato professore di scienze politiche all’Università Galatasaray di Istanbul (è autore di un volume sulla politica estera di Erdogan), se non fosse stato per le notizie sempre più gravi che provengono dalle province sud-orientali. «Sono ormai mesi e mesi che arrivano informazioni drammatiche dalle regioni a maggioranza curda. Molti dei miei studenti che vengono da quelle aree sono stati arrestati. Alcuni proprio non possono raggiungere Istanbul a causa del coprifuoco e dei posti di blocco militari. Ci sono popolazioni intere isolate, prive di cibo, acqua, assistenza medica. E il grave è che i nostri media non ne parlano», racconta Mehmet. Anche adesso avrebbe preferito evitare problemi. Tanto che lunedì scorso, quando 1.128 accademici turchi hanno firmato una petizione dal titolo eloquente, «Non saremo complici dei vostri crimini», lui era rimasto nell’ombra. Ma sono state poi le critiche durissime del governo, inclusi alcuni personaggi legati alla malavita locale, che lo hanno spinto a firmare. «Ho dovuto prendere posizione. Le minacce di Erdogan e dei suoi tirapiedi sono state troppo volgari, troppo offensive. Il noto mafioso Sedat Peker ha dichiarato pubblicamente di volersi fare la doccia con il sangue degli intellettuali. Intimidazioni aperte, senza risposta da parte delle autorità. Ovvio che non potevo più tacere. Così ho aggiunto il mio nome alla lista. Se ho ben capito in poche ore siamo diventati ben oltre 2.000 firmatari».
Ezgi viaggia spesso per lavoro nelle province curde. L’ultima volta è stato un mese fa. «Noi due siamo musulmani sunniti, non curdi. Però siamo convinti che la soluzione sia quella della convivenza e del dialogo. Il braccio di ferro militare porta solo tragedie e lutti, come è già avvenuto infinite volte nel passato», tiene a sottolineare. Il punto per loro non è infatti difendere la causa dell’autonomia curda, o tanto meno levare le accuse di «terrorismo» che il governo ripete ad ogni occasione contro gli estremisti del Pkk, il Partito dei Lavoratori curdo che ricorre spesso alla lotta armata. Sono però convinti che Erdogan abbia precipitato la crisi quando in primavera ha scelto di tagliare il dialogo avviato 4 anni fa con i moderati curdi. «Da allora è l’inferno. Abbiamo notizie di squadracce della morte chiamate Esedullah che torturano, rapiscono, uccidono impunemente. Chi denuncia è una spia per la polizia», commenta. Drammatici i numeri dai campi della guerra civile: fonti filo-governative parlano trionfalmente di 3.000 guerriglieri del Pkk uccisi da metà estate, i morti delle forze di sicurezza sarebbero ben oltre 200. Incerto il numero delle vittime civili.
Lorenzo Cremonesi


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