by redazione | 18 Gennaio 2016 7:38
Riproduciamo qui la traduzione in italiano dell’articolo Emigracion, la herida sangrante[1], pubblicato nel numero 1 della rivista Global Rights[2].
A titolo di premessa valgano alcuni aggiornamenti recenti sulla cosiddetta “Crisi di Costa Rica”[3] anche per comprendere meglio il testo originale.
I cittadini cubani “bloccati” in Costa Rica non sono, come sembrava al momento in cui l’articolo veniva scritto, 2000 ma bensì almeno 8000. Per questi, a una riunione tenutasi a fine dicembre, Costa Rica, Nicaragua, Messico, Guatemala, Belize, hanno accordato una soluzione che prevede il trasbordo aereo a Messico. Da qui i cittadini cubani dovranno entrare negli USA.
Ci sono inoltre circa 2000 cittadini cubani alla frontiera con Panama. Teoricamente questi sono esclusi dall’accordo pilota (e come sottolineano i paesi che lo hanno raggiunto, totalmente unico e non ripetibile) firmato in Guatemala.
Martedì 12 gennaio i primi 140 cubani sono stati trasferiti in aereo in Messico. Hanno pagato 500 dollari a testa come contributo alle spese per il trasferimento, alloggio, vitto in Messico. Il resto dei soldi li metterà l’Organizzazione Internazionale per i migranti.
La emigrazione a Cuba non è fenomeno differente da quelli cui assistiamo in altri paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Nonostante alcuni media insistano sulle cause “politiche” di questa diaspora, la realtà è che, dalla metà degli anni ’90, questa giustificazione non ha quasi peso nei motivi per cui migliaia di cubani abbandonano annualmente il loro paese con destinazione quasi esclusiva verso gli Stati Uniti e in maniera minore l’Unione europea.
E’ difficile confermare dati certi nel caso di Cuba, essendo i margini tra l’ufficiale e l’ufficioso sempre troppo ampi e le differenze hanno in molti casi un marcato connotato ideologico, come quasi sempre quando si parla di questa isola. In questo caso, comunque, i numeri servono più per sottolineare la dimensione di questa realtà, ricalcare alcune politiche promosse dagli USA per incoraggiare questo flusso costante di persone e soprattutto per esporre la grande sfida, presente e futura, che questo fenomeno impone a una società in piena trasformazione come quella cubana.
Sulla base degli accordi migratori tra i due governi a partire dalla cosiddetta crisi dei balseros, tra il 1994 e il 1995, gli Stati Uniti devono concedere almeno 20 mila visti annualmente a cubani residenti nell’isola. Ciononostante questo numero di visti non corrisponde esattamente a quello di migranti legali annuali perché include un numero rilevante di persone che viaggiano con il solo obiettivo di visitare i loro familiari e che pertanto ritornano a Cuba. A questo primo numero dunque bisogna aggiungere quello delle persone che realizzano questo viaggio di andata e ritorno e quello variabile a seconda degli anni e dei momenti di persone che escono dall’isola illegalmente via mare grazie all’attivo intervento delle mafie di Miami, che fanno del traffico di migranti la loro occupazione principale. Un viaggio può costare attualmente tra i 5 e gli 8 mila dollari. Secondo dati recenti delle autorità di frontiera degli USA, via mare e illegalmente sono entrate – tra gennaio e novembre 2015 – 7 mila persone: un aumento del 100% rispetto al 2014.
Parallelamente nel 2015 si è venuto a creare una sorta di “corridoio cubano” che, con punto di partenza legale all’Havana e punto d’arrivo in Ecuador (che non richiedeva ai cittadini cubani il visto. Con la crisi di fine d’anno però dal 1 gennaio 2016 questa esenzione già non esiste più) attraversa in linea retta Colombia, Panama, Costa Rica, Nicaragua e Guatemala per arrivare infine alle frontiere terrestri degli Stati Uniti, dopo aver attraversato tutto il Messico, da sud a nord. Secondo dati ufficiali forniti dalle stesse autorità statunitensi durante i primi nove mesi del 2015, 27 mila cubani hanno realizzato questo lunghissimo e accidentato viaggio per arrivare al “paradiso dei loro sogni”. Si tratta di un aumento del 78% rispetto al 2014. Un viaggio che può costare in totale tra i 4 e i 6 mila dollari a persona, incluso il pagamento alle varie reti di trafficanti di persone coinvolte.
A questi numeri bisogna aggiungere una quantità sconosciuta di viaggiatori cubani che si dirigono verso i paesi dell’Unione europea. Altrettanto difficile è stabilire quante persone si installano permanentemente in Europa (basti ricordare per esempio che circa 200 mila persone native del paese caraibico hanno doppia nazionalità, spagnola e cubana).
Sottolineando un’altra volta che le statistiche possono essere soltanto approssimative e spesso impossibili da confermare, si potrebbe dire a titolo orientativo che attualmente sono tra i 40 e 45 mila i cubani che abbandonano il loro paese annualmente per radicarsi, per la maggior parte, negli Stati Uniti.
Partendo dalle caratteristiche della società cubana e dall’essenza di questo tipo di migrazione non è avventuroso pensare che la maggior parte di queste persone oscilla, per età, tra i 20 e i 50 anni (popolazione dunque in piena età lavorativa) e che gode mediamente di buona educazione e salute. E’ quasi impossibile calcolare la composizione di questa popolazione in termini di genere, colore della pelle, provenienza territoriale, origine rurale o urbana.
La crisi del novembre 2015, provocata in primo luogo dalle autorità di Costa Rica e quindi da quelle nicaraguensi che hanno negato il permesso di attraversare il loro paese a circa duemila migranti cubani [in seguito, la cifra è stata stimata in ottomila, ndr] diretti in Messico, ha portato allo scoperto non solo la dimensione di questo fenomeno migratorio ma anche le conseguenze regionali che esso può provocare. Allo stesso tempo la crisi ha posto nuovamente sul tappeto la componente politica di questa questione e proprio quando si parla di ristabilimento delle relazioni tra Stati Uniti e Cuba.
Nell’agenda stabilita nelle conversazioni bilaterali di questi ultimi dodici mesi, una delle richieste fondamentali da parte cubana è la eliminazione delle leggi e regole che incoraggiano in maniera aperta e indiscriminata l’emigrazione incontrollata di cubani verso il vicino del nord. Si chiama Ley de Adjuste cubano 1966 e concede asilo e quindi residenza permanente a qualsiasi cubano che le richieda, a prescindere delle ragioni addotte e della maniera in cui è arrivato negli USA. La politica nota come “politica dei piedi asciutti e piedi bagnati” stabilisce dal 1995 che ogni cubano che letteralmente ponga piede in territorio nordamericano può ricorrere alla Ley de adjuste e quindi al “Programa de Parole para Profesionales Médicos cubanos”, messo in pratica dal 2006 che promuove la migrazione privilegiata verso gli USA di professionisti cubani che stiano effettuando missioni di cooperazione in altri paesi.
La percezione, da parte di una fetta di popolazione cubana che ha intenzione di lasciare l’isola, che le politiche ‘privilegiate’ nordamericane in materia di migrazione stiano per arrivare alla fine ha senza dubbio fatto aumentare nel 2015 il flusso di migranti provocando quella che già è stata chiamata “crisi di Costa Rica”. Una crisi che, a sua volta, ha dato forza e ragioni alla richiesta cubana di mettere fine a questa politica migratoria irresponsabile che appare contraddittoria e incompatibile con la dichiarazione di intenzioni di normalizzare le relazioni espressa dal presidente Barack Obama il 17 dicembre 2014, e ratificata da importanti e numerosi funzionari della sua amministrazione nel corso del 2015.
Ciononostante, al di là di quanto accaduto in Costa Rica, delle sue conseguenze e della sua soluzione temporanea è necessario segnalare che una migrazione regolamentata e legale non servirà a frenare la migrazione di cittadini cubani, con la conseguente emorragia umana ed economica che essa comporta per la società nel suo insieme. Cambiare queste tendenze migratorie, ridurle a limiti ragionevoli o sostenibili rappresenta una vera sfida per la nazione cubana. Le chiavi per applicare soluzioni a medio e largo termine stanno senz’altro nella necessità di costruire dinamiche economiche e sociali che puntino a un progressivo benessere e uguaglianza, obiettivi che richiederanno tempo e un dibattito sociale fondamentale per raggiungere consensi interni.
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