«Come ti porto, ti posso far sotterrare. Qui comandiamo noi, né avvocati né giudici, comandiamo noi!». Sono frasi agghiaccianti quelle pronunciate dagli agenti del penitenziario di Parma e registrate su un nastro da Rachid Assarag, detenuto quarantenne marocchino che aveva denunciato più volte, inutilmente, episodi di violenza. Ma al sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda queste parole, «seppur inquietanti, paiono lezioni di vita carceraria, più che minacce e affermazioni di supremazia assoluta o negazione dei diritti, visto che la guardia dice di non aver mai usato violenza e Assarag conferma ». Il pm, che scrive di accuse smentite dalle indagini, ha così chiesto l’archiviazione del procedimento contro dieci agenti penitenziari, finiti sotto accusa dopo la pubblicazione di quei nastri raccolti dall’associazione “A Buon diritto”. Nastri che hanno spinto anche il ministero della Giustizia ad aprire un’indagine.
La richiesta di archiviazione gela Fabio Anselmo, avvocato di Rachid Assarag, ieri in aula con il suo cliente per un nuovo processo a Firenze. «È inaccettabile, dov’è finito lo Stato di diritto? In quei nastri gli agenti minacciano, si parla di botte, di sangue, di medici che pur sapendo non denunciano per paura di ritorsioni, di detenuti che si feriscono pur di non farsi picchiare. Sembra proprio che non vogliano farlo più uscire vivo dal carcere. I magistrati avrebbero dovuto fare nuove indagini, intercettazioni ambientali. E invece nulla, ora lui ha paura per la sua incolumità». Parla come un fiume in piena l’avvocato mentre ha accanto Rachid, seduto sulla sedia a rotelle, stremato dopo lo sciopero della fame che gli ha fatto perdere 18 chili, stanco dopo il viaggio dal carcere di Torino, dove ora è rinchiuso. È l’undicesimo penitenziario dalla condanna per violenze sessuali nel 2009. Sei anni di trasferimenti segnati da denunce di minacce e violenze, di agenti che da nord a sud parlano come malavitosi «di botte che ti saranno utili perché tanto qui dentro la costituzione non vale». Di guardie che insistono nel minacciare perché «otteniamo risultati soltanto col bastone, per questo vi picchiamo ». E se gli si chiede perché non hanno impedito un pestaggio rispondono ridendo: «Fermarlo? Semmai lo aiutavo. Vengo e te ne do altre».
Storia di un inferno dietro le sbarre cominciato per Rachid nel carcere di Parma nel 2010 dove, racconta, in quattro guardie lo seviziano con una stampella a cui si appoggia per camminare. Denuncia, non viene creduto e per lui comincia il tour dei trasferimenti accompagnati da denunce di violenza che non portano a nulla, mentre inizia a registrare tutto con l’aiuto della moglie italiana. E sono voci dal carcere: di agenti e medici, operatori e magistrati. Di detenuti. Voci rimaste inascoltate. Come le richieste di aiuto. In una intercettazione Assarag chiede ad un medico di Parma che testimoni le violenze nei suoi confronti. Ma la risposta non dà speranza. «Non posso perché mi fanno il c… I sanitari hanno l‘obbligo di denunciare ma se io faccio una cosa del genere mi complico solo la vita». Paura, timore di ritorsioni, anche da parte di chi dovrebbe curare, accudire.
Sarà forse anche per questo che il sostituto procuratore non ha trovato conferme alle accuse di Rachid — mentre segnala ripetuti rapporti disciplinari a suo carico — e motiva la richiesta di archiviazione nei confronti degli agenti col fatto che «delle persone sentite nessuna ha riferito di aver visto segni di percosse o lesioni o di aver assistito ad episodi di violenza nei suoi riguardi ». Gli agenti negano e non sono state trovate conferme alle accuse, nessuno ha visto, nessuno ha denunciato. Restano solo quelle registrazioni a raccontare un clima che ben poco ha a che fare con l’idea di penitenziario come luogo di rieducazione.