Libia in fiamme, l’Isis colpisce il petrolio
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La Libia è in fiamme. Ieri mattina un’autobotte carica di esplosivo guidata da un kamikaze ha causato una strage senza precedenti, di quelle che ricordano gli attentati in Siria e Iraq. Obbiettivo: il campo di addestramento per le reclute della polizia di al-Jahfal a Zliten, cittadina costiera a 160 chilometri a est di Tripoli e 50 a ovest di Misurata. Un massacro avvenuto proprio mentre 400 giovani in divisa erano radunati per l’appello. Almeno una cinquantina i morti (alcune fonti ne segnalano 65), oltre 120 i feriti. Gli ospedali locali chiedono sangue e medicine. La gravità dell’attacco non sta solo nel numero delle vittime, bensì nel luogo: sulla strada di collegamento principale tra la capitale e Misurata, dove è basata la milizia più importante tra quelle che nel 2011 guidarono la lotta armata (con il sostegno Nato) contro il regime del Colonnello Gheddafi.
Ieri sera ancora non erano giunte rivendicazioni credibili: ma convinzione diffusa è che i responsabili vadano cercati tra i jihadisti di Isis, che sempre più numerosi ormai stanno concentrandosi nel Paese (sconosciuto il loro numero, fonti libiche stimano sino a 10.000 stranieri). Tanti sono locali, ma i più pericolosi restano i volontari arrivati dall’estero. I media di Tripoli riportano che tre notti fa un barcone «carico di stranieri» era arrivato sulla spiaggia di Zliten, senza che le autorità abbiano potuto fare nulla di concreto per fermarli.
«Abbiamo provato a registrare gli stranieri, ma il nostro sforzo non ha impedito la catastrofe», sostiene Sarraj al Rashdi, responsabile del commissariato di Zliten, al giornale online in lingua inglese Libya Herald . Isis sposta i suoi uomini via mare, controlla ormai oltre 400 chilometri di costa libica, molti arrivano anche in barca dalla Tunisia. Un’informazione che conferma gli appelli all’«andata in Libia» fioriti numerosi negli ultimi tempi tra i ranghi di Isis in Siria e Iraq.
A ciò si aggiungono gli attacchi sempre più aggressivi che le colonne di Isis partite da Sirte (l’ex roccaforte di Gheddafi, che da oltre un anno è diventata la base principale del Califfato in Libia) lanciano contro i terminali petroliferi di Ras Lanuf, Ben Jawad e il porto di El Sider. Sono nomi noti, marcarono le battaglie dell’estate 2011, quando i miliziani di Gheddafi cercavano di raggiungere Bengasi. Allora però sia i ribelli che le brigate lealiste stettero ben attenti a non mirare a tutto ciò che aveva a che fare con il petrolio e le ricchezze nazionali. Ora non più. Isis spara alzo zero, vuole colpire ciò che era stato salvato. I pompieri hanno estinto a fatica due incendi nei depositi petroliferi di Ras Lanuf (ognuno della capacità di 460.000 barili di greggio). Altri cinque, più piccoli, sono ancora in fiamme a El Sider.
«Siamo spacciati. Isis sta prendendosi la Libia», commentano tra i circoli della stampa nella capitale. Non c’è più spazio per titubanze o dubbi, quella che prima era una minaccia si è trasformata in realtà violenta e aggressiva: Isis si stabilisce sempre più saldamente in Libia. E avanza verso Tripoli, si allarga da Sirte verso Bengasi, colpisce chiunque si opponga, sbaraglia le milizie locali, attacca la polizia, prende di mira la ricchezza principale del Paese: i pozzi petroliferi, le infrastrutture energetiche.
I politici locali si dimostrano del tutto impotenti. Il nuovo governo di unità nazionale sponsorizzato dall’Onu e caldeggiato dall’Europa, con l’Italia in testa, appare come paralizzato, incapace di mettere ordine alle diatribe interne.
Lorenzo Cremonesi
Ieri sera ancora non erano giunte rivendicazioni credibili: ma convinzione diffusa è che i responsabili vadano cercati tra i jihadisti di Isis, che sempre più numerosi ormai stanno concentrandosi nel Paese (sconosciuto il loro numero, fonti libiche stimano sino a 10.000 stranieri). Tanti sono locali, ma i più pericolosi restano i volontari arrivati dall’estero. I media di Tripoli riportano che tre notti fa un barcone «carico di stranieri» era arrivato sulla spiaggia di Zliten, senza che le autorità abbiano potuto fare nulla di concreto per fermarli.
«Abbiamo provato a registrare gli stranieri, ma il nostro sforzo non ha impedito la catastrofe», sostiene Sarraj al Rashdi, responsabile del commissariato di Zliten, al giornale online in lingua inglese Libya Herald . Isis sposta i suoi uomini via mare, controlla ormai oltre 400 chilometri di costa libica, molti arrivano anche in barca dalla Tunisia. Un’informazione che conferma gli appelli all’«andata in Libia» fioriti numerosi negli ultimi tempi tra i ranghi di Isis in Siria e Iraq.
A ciò si aggiungono gli attacchi sempre più aggressivi che le colonne di Isis partite da Sirte (l’ex roccaforte di Gheddafi, che da oltre un anno è diventata la base principale del Califfato in Libia) lanciano contro i terminali petroliferi di Ras Lanuf, Ben Jawad e il porto di El Sider. Sono nomi noti, marcarono le battaglie dell’estate 2011, quando i miliziani di Gheddafi cercavano di raggiungere Bengasi. Allora però sia i ribelli che le brigate lealiste stettero ben attenti a non mirare a tutto ciò che aveva a che fare con il petrolio e le ricchezze nazionali. Ora non più. Isis spara alzo zero, vuole colpire ciò che era stato salvato. I pompieri hanno estinto a fatica due incendi nei depositi petroliferi di Ras Lanuf (ognuno della capacità di 460.000 barili di greggio). Altri cinque, più piccoli, sono ancora in fiamme a El Sider.
«Siamo spacciati. Isis sta prendendosi la Libia», commentano tra i circoli della stampa nella capitale. Non c’è più spazio per titubanze o dubbi, quella che prima era una minaccia si è trasformata in realtà violenta e aggressiva: Isis si stabilisce sempre più saldamente in Libia. E avanza verso Tripoli, si allarga da Sirte verso Bengasi, colpisce chiunque si opponga, sbaraglia le milizie locali, attacca la polizia, prende di mira la ricchezza principale del Paese: i pozzi petroliferi, le infrastrutture energetiche.
I politici locali si dimostrano del tutto impotenti. Il nuovo governo di unità nazionale sponsorizzato dall’Onu e caldeggiato dall’Europa, con l’Italia in testa, appare come paralizzato, incapace di mettere ordine alle diatribe interne.
Lorenzo Cremonesi
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