Werner Sombart e il militare costituente

by Massimiliano Guareschi, il manifesto | 5 Gennaio 2016 12:21

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Pubblicato da Mimesis «Guerra e capitalismo» di Werner Sombart. Un saggio che ha costituito per il Novecento la bussola nell’analisi su come l’organizzazione degli eserciti abbia influenzato la vita «civile». Fattore che non può essere proiettato sul presente, dove il complesso digitale-militare-industriale fa suoi i modelli produttivi e politici dell’economia postfordista

Nel 1895 Friedrich Engels indirizzò una missiva al giovane Werner Sombart in cui si congratulava per un articolo da questi pubblicato definendolo come il primo serio tentativo di comprendere Marx da parte di un accademico tedesco. Al tempo il destinatario era un convinto marxista e militante socialista. Il suo percorso politico lo avrebbe portato altrove. La critica al capitalismo si sarebbe trasformata in nostalgia antimoderna, sempre più venata di tinte di razziste, nazionaliste e antisemite. Con l’avvento del nazismo, Sombart pensò che fosse venuto il suo momento e il nuovo regime avrebbe guardato alle sue idee e alla sua persona come fonte di ispirazione. Non fu così, da parte di un regime allo stesso tempo troppo moderato, sul versante dell’ordine proprietario, e radicale, al livello della politica razziale, per farsi influenzare da un autore che, nonostante il suo riorientamento a destra, continuava a citare Marx come autore di riferimento.

Se l’itinerario politico di Sombart è assai movimentato non lo stesso si può dire dei suoi interessi teorici che tenderanno costantemente a gravitare intorno a un tema: il capitalismo. La prima edizione del suo Il capitalismo moderno può essere vista come il punto di avvio in Germania di un ampio dibattito sull’origine, la logica e il futuro del capitalismo che nei primi decenni del secolo avrebbe coinvolto, in un gioco di rimandi reciproci, figure come Max Weber, Lujo Brentano o il Georg Simmel della Filosofia del denaro.

Le idee del 1914

Il capitalismo moderno pubblicato in prima edizione nel 1902 sarà riproposto in edizione ampliata e rielaborata nel 1927. Il percorso che conduce da un’edizione all’altra è scandito da una serie di altri volumi volti a sviluppare singoli snodi tematici riguardanti la questione principe della riflessione sombartiana. Fra essi si possono ricordare Gli ebrei e la vita economica (1911) che, in dialogo critico con le posizioni weberiane, enfatizza il ruolo degli ebrei nella genesi del capitalismo, o Il borghese (1913) sull’origine e le componenti antropologiche dell’imprenditore. Sempre nel 1913 escono i due volumi degli Studi sulla storia dello sviluppo del capitalismo: Il primo, Lusso e capitalismo, incentrato sulla funzione della domanda di beni suntuari da parte delle corti nel decollo dell’economia capitalista, il secondo, Guerra e capitalismo, di cui mimesis manda in libreria la prima traduzione italiana (pp. 265, euro 24, a cura di Roberta Iannone).

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Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Sombart avrebbe aderito attivamente alle «idee del 1914», a una prospettiva che vedeva nella guerra un momento di rigenerazione collettiva contro l’individualismo utilitaristico nello scenario di una lotta fra la Kultur e le tendenze uniformanti della Zivilisation anglo-francese. In tale contesto si colloca la stesura di Händler und Helden, incentrato su una lettura del passato e del presente in termini, appunto, di contrapposizione fra mercanti ed eroi, con la prima tipologia che farebbe capo agli inglesi e la seconda ai tedeschi. Anche all’interno della dimensione capitalistica, da questo punto di vista, si esprimerebbe una dicotomia fra una modalità da mercante, incentrata parassitariamente sul prelievo e la speculazione finanziaria, tipica di una linea che dagli ebrei conduce agli inglesi, e una forma di imprenditoria più «eroica», incentrata sull’assunzione di responsabilità e correlata a quella che talvolta oggi si definisce, fra non pochi equivoci, «economia reale».

Un classico mancato

La guerra è un tema scarsamente considerato dalla sociologia, sia da coloro che, saranno riconosciuti come i padri fondatori della disciplina, Weber e Durkheim, sia dalla ricerca successiva, in genere poco propensa a tematizzare il carattere sociale di quella che a prima vista appare come la manifestazione per eccellenza dell’asocialità. Di conseguenza, non si può che guardare con curiosità a un’opera come Capitalismo e guerra in cui un «classico mancato» della sociologia come Sombart pone il fatto bellico al centro della sua analisi, attraverso la mediazione della sua ossessione teorica, il capitalismo.

Il volume del 1913, ancora lontano dagli schemi militanti di Mercanti ed eroi, si incentra su un arco storico che dal tardo Medioevo giunge alla fine dell’Ancien régime e mira a tematizzare il contributo offerto dalla guerra e, in particolare, dall’organizzazione militare alla strutturazione di un’economia di tipo capitalista. Di contro all’idea positivistica secondo cui guerra e società industriale corrisponderebbero a due matrici fra loro incompatibili, Sombart evidenzia come la dimensione militare, lungi dal porsi come antitetica, risulti costitutiva dell’impresa rivolta al profitto. Per verificare tale ipotesi le prime analisi sono dedicate all’impatto del reclutamento militare sulle finanze di città e stati in via di consolidamento. Si tratta di un tema che sarebbe stato caro al Braudel di Civiltà materiale, economia e capitalismo, non a caso fra i pochi autori del dopoguerra a esprimere un giudizio favorevole su Sombart, ulteriormente approfondito dalla storiografia militare più avvertita, in particolare Geoffrey Parker, e da grandi sintesi di sociologia storica come quelle di Charles Tilly o Michael Mann. Se all’interno di tale linea di ricerca l’accento è posto soprattutto sui processi di consolidamento istituzionale indotti dall’esigenza di razionalizzare il prelievo fiscale, in Sombart l’attenzione è rivolta soprattutto agli strumenti finanziari elaborati al fine di garantire a sovrani e città il reclutamento di eserciti sempre più costosi e sull’accumulazione (originaria?) dei profitti derivanti da tali attività presso i negoziatori privati.

A parere di Sombart la comprensione della genesi del capitalismo è stata viziata dall’abitudine di assumere come punto di osservazione l’industria tessile. Ciò ha spinto a tralasciare l’impatto avuto dai settori connessi con la guerra, ossia la fabbricazione di armi, la cantieristica navale e le forniture alle truppe, con tutto l’indotto che ne conseguiva.

Modelli produttivi

A ciascuno di questi ambiti Guerra e capitalismo dedica ampi capitoli che, con grande sfoggio di dati, evidenziano il ruolo pionieristico da essi svolto in termini di superamento delle forme artigianali di produzione per rispondere alle esigenze di una domanda di prodotti standardizzati quantitativamente senza precedenti proveniente da eserciti e marine sempre più grandi. L’indagine sombartiana, tuttavia, non si svolge solo sul terreno della storia economica. Nel testo emergono significative variazioni rispetto al tema dello spirito del capitalismo. In tal senso, si evidenzia come le qualità di ascesi intramondana attribuite all’imprenditore capitalista, che nella tesi di Weber erano prioritariamente associate all’etica calvinista, caratterizzino anche l’universo degli eserciti moderni. In tal senso, nelle parole di Sombart, puritanesimo e new model army procedono di pari passo, manifestando una gemellarità all’insegna del disciplinamento.

A più di un secolo di distanza dall’uscita Guerra e capitalismo può essere assunto come una tessera di quel ricco dibattito sul Kapitalismus sviluppatosi in Germania all’inizio del secolo passato oppure come un momento inaugurale di prospettive di ricerca sviluppatesi in seguito su tematiche quali le strategie di disciplinamento o gli effetti costituenti della guerra nella prima modernità. Ma il libro ci consegna anche un problema. Quali sono oggi gli effetti costituenti della guerra, in senso sia politico sia economico? In proposito, le risposte valide per il passato non appaiono proiettabili sul presente.

La questione del complesso digitale-militare-industriale, per esempio, non può essere considerata come una semplice variante high tech di dinamiche precedenti. Se per secoli il militare è apparso come l’incubatore di innovazioni sia tecnologiche sia organizzative destinate in seguito a essere trasferite in ambito civile, oggi il percorso non appare così rettilineo. Anche i maggiori contractor del settore militare, nonostante le ricche commesse, non risultano in grado di tenere il passo con il tasso di innovazione che sono in grado di captare le grandi corporation «civili». Da qui il crescente ricorso dell’industria militare alle tecnologie duali e all’approvvigionamento on-the-shelf. Ne consegue che il complesso digitale-militare-industriale si presenta come una realtà sempre meno autosufficiente e più difficilmente isolabile a fronte del proliferare di filiere che intrecciano militare e civile e in cui la prima dimensione non sempre svolge la dimensione trainante riscontrabile in passato.

Fallimenti statali

Una ricca letteratura ha evidenziato come gli eserciti abbiano svolto un ruolo chiave nell’elaborazione di modalità organizzative e disciplinari, a partire dalla scomposizione e sincronizzazione delle mansioni o dall’articolazione delle gerarchie di comando, che si sarebbero in seguito riversate nell’universo industriale e burocratico. Oggi, diversamente, sembra di assistere al processo inverso, con il tentativo di adeguare gli eserciti alle modalità di organizzazione del lavoro tipiche del management postfordista. Lo mostrano i processi di ristrutturazione che in questi decenni hanno interessato i dispositivi militari, in cui emergono tendenze al downsizing, al just-in time, al subappalto e all’esternalizzazione per molti tratti analoghe a quelle che hanno rimodellato il settore industriale e dei servizi. Se dal terreno economico si passa a quello politico, invece, l’interrogativo riguarda il tipo di spazialità politiche di cui oggi le guerre sono costituenti.

Generalizzando, si può notare come gli esiti di un ampio spettro di conflitti armati, dai regimi presidiati scaturiti dagli interventi a guida statunitense al carattere endemico delle guerre africane passando per lo stallo istituzionalizzato in Israele/Palestina o la morfologia di Daesh, rimandino al fallimento di ogni progetto di state building e stabilizzazione regionale a favore della strutturazione di una cifra territoriale selettiva incentrata sulla securizzazione di determinate aree, circuiti e popolazioni. Si tratta di una matrice ad arcipelaghi ed enclave che emerge non solo nei contesti bellici ma all’interno di una pluralità di processi di ristrutturazione spaziale all’insegna della multiscalarità, del rescaling, della riconfigurazione dei dispositivi confinari, dell’attivazione di dinamiche selettive di connessione/deconnessione.

La guerra nella modernità europea ha svolto un ruolo fondamentale nell’omogeneizzazione dei territori e le popolazioni all’interno del perimetro statale. Negli scenari attuali, invece, essa ci appare costituente di altre forme di spazialità politica, meritevoli di essere analizzate per quello che sono e non solo per la mancata conformità ai canoni dell’ordine nazionale-internazionale.

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