Medio Oriente, l’incubo di altre guerre Così fallisce la strategia di Obama

Medio Oriente, l’incubo di altre guerre Così fallisce la strategia di Obama

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Rottura delle relazioni diplomatiche, evacuazione dell’ambasciata saudita a Teheran: l’improvvisa accelerazione della crisi moltiplica i rischi per tutti, ben oltre i due giganti rivali del Golfo. È un conflitto per ora politico, ma pronto a degenerare. Perché ne incrocia altri, già combattuti con le armi: dalla Siria all’Iraq allo Yemen. L’asprezza dello scontro tra Iran e Arabia saudita può destabilizzare i faticosi sforzi dell’Occidente per saldare una coalizione contro lo Stato Islamico. È un grave contraccolpo per Obama che di quella coalizione ha la guida. Nel corso del 2015 la sua strategia ha avuto due capisaldi. Primo: la scommessa sulla normalizzazione dei rapporti con l’Iran. Secondo: la costruzione di una grande coalizione contro lo Stato Islamico. Tutt’e due sono messi a repentaglio dalla crisi fra Teheran e Riad. L’accordo sul nucleare iraniano è stato — insieme a Cuba — uno dei “colpi” con cui Obama voleva costruire la sua eredità negli affari internazionali. È stata definita un’operazione kissingeriana, evocando il “patto col diavolo” che Henry Kissinger orchestrò negli anni Settanta tra l’America e la Cina di Mao.
Anche Obama ha osato dialogare con un “demonio” che incombe sulla diplomazia americana dalla crisi degli ostaggi di Teheran (1979). Lo ha fatto non perché creda che il regime iraniano sia improvvisamente filo- occidentale (neppure la Cina di Mao cessò di essere comunista). La scommessa era sull’interesse comune degli iraniani a rimettersi in gioco. L’Arabia saudita, dopo avere strepitato per mesi contro l’accordo sul nucleare iraniano, ora è passata alle vie di fatto: sabotaggio attivo. Che complica molto i disegni di Obama. Dei sauditi lui non si fida molto più che degli iraniani ma non può buttar via decenni di “rapporto privilegiato”, alleanza militare, intrecci finanziari. Ma i sauditi sembrano pronti a tutto pur d’impedire un ritorno dell’Iran nella comunità internazionale.
Lo stesso avviene sull’Is. Obama è convinto che il Califfato possa essere sconfitto, ma non mandando truppe americane “infedeli” a riconquistarne i territori. La riconquista deve avere come protagonisti dei combattenti sunniti. Perché questo avvenga — Obama lo ha ripetuto al G20 in Turchia — tutte le potenze regionali devono accantonare altre rivalità e concentrarsi sul “nemico principale”. Dunque tutte devono decidere che il primo avversario da abbattere è proprio lo Stato Islamico, voltando pagina rispetto ai doppi giochi. L’esplosione di ostilità tra Arabia e Iran spinge nella direzione opposta.
Petrolio e nucleare, finanza e affari, s’intrecciano con la religione e la politica, nelle grandi manovre per un Medio Oriente post-americano. Non c’è solo l’antica contrapposizione politico-religiosa tra sunniti e sciiti dietro l’escalation fra Arabia saudita e Iran. Sullo sfondo c’è un tremendo contro-shock energetico, una guerra economica. Un ribaltamento dei mercati che ha ripercussioni catastrofiche per tutti i petro-Stati. Una dopo l’altra vanno in crisi con un effetto domino le economie che vivevano di rendita energetica. Molte, peraltro, sono nemiche storiche dell’America: Russia, Venezuela, Iran. Solo nel 2015 il prezzo del greggio è caduto del 40 per cento. Per chi il petrolio lo vende, l’impoverimento è brutale. All’interno dell’Opec, indebolita e lontana anni-luce dal potere oligopolistico del passato, è esplosa la guerra guerreggiata delle “quote”. Con l’Iran che torna sui mercati mondiali e l’Arabia ben decisa a contrastare l’export del suo potente rivale. Ormai la parola austerity è arrivata sulle rive del Golfo Persico, dove le spese pubbliche faraoniche vengono ridimensionate, gli sceicchi devono tagliare. Rischiando a loro volta crisi di consenso interne, in paesi dove la spesa pubblica finanziata dal petrolio è spesso l’unico collante sociale.
Questo scenario dà anche un altro significato allo scenario di un Medio Oriente “post- americano”: quello di una ritirata strategica degli Usa che sancisce una progressiva perdita d’interesse geo-economico verso la regione. Da anni l’America non importa più neanche una goccia di petrolio dal Medio Oriente. Il prezzo che paga per mantenere in quell’area una vacillante egemonia — e due flotte — comincia a sembrare eccessivo ad una parte della classe dirigente Usa.
Ma un ruolo di arbitro nella zona di transiti petroliferi che va dal Mediterraneo al Golfo Persico fino all’Oceano Indiano, fa parte dei prezzi da pagare per mantenere una leadership mondiale. Tanti altri, alleati o rivali, continuano ad avere bisogno del petrolio arabo: dagli europei ai cinesi. Finché l’America pattuglia con le sue flotte le grandi rotte navali del greggio, l’Europa e la Cina le riconoscono volenti o nolenti uno status “indispensabile”. Per questo il “guerriero riluttante” Barack Obama è impegnato a ridisegnare le sue strategie, tenendo conto di due attrazioni contrapposte: da una parte l’interesse a non farsi risucchiare in conflitti fallimentari come l’Iraq; d’altra parte conservare una presenza che fa parte dell’influenza planetaria degli Stati Uniti. A questo punto, ogni calcolo e ogni scenario deve incorporare una nuova crisi. Con due potenze locali armate fino ai denti, nessuna delle quali può essere “decifrata” facilmente, tantomeno disciplinata da influenze esterne. Tramontata ogni illusione di Pax Americana, non esistono premesse di una Pax Russa o Cinese, solo la pesante realtà di guerre regionali dove alle etichette religiose si mescolano tanti altri interessi.


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