Vali Nasr: «Una provocazione pericolosa per sabotare il disgelo con l’Iran»
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«Non ho dubbi. L’esecuzione dell’imam sciita Sheikh Nimr al Nimr è un atto deliberato, una provocazione del regime saudita che ha chiari obiettivi di politica estera: Riad vuole alimentare la narrativa dei conflitti settari, radicalizzare lo scontro tra sciiti e sunniti per sabotare i negoziati in corso ed impedire che si arrivi ad accordi siglati col contributo essenziale di Teheran».
Secondo Vali Nasr, grande esperto di affari mediorientali e rettore della Scuola di studi politici internazionali della Johns Hopkins University di Washington, è tutto chiaro: la monarchia saudita ha deciso di inaugurare il 2016 con 47 esecuzioni per distogliere l’attenzione dai problemi dinastici interni, ma soprattutto per cercare di distruggere i canali di dialogo col regime degli ayatollah. L’obiettivo è quello di tenere l’Iran fuori dai giochi diplomatici che possono restituirgli un ruolo di primo piano nell’area mediorientale, dopo decenni di isolamento.
La raffica di esecuzioni effettivamente è impressionate. 47 in un colpo solo a fronte delle 90 dell’intero 2014 e delle 157 del 2015. Sicuramente una monarchia in difficoltà, quella dei Saud. Ma nel suo mirino non ci sono solo gli sciiti: sono stati mandati a morte anche molti insorti considerati membri o alleati di Al Qaeda, un’organizzazione terroristica di matrice sunnita.
«L’unica esecuzione che conta davvero, sul piano politico, è l’uccisione di un leader religioso sciita. E il fatto che un imam che aveva sostenuto le proteste anti regime durante la primavera araba del 2011, incarcerato e condannato a morte come sovversivo per dei reati d’opinione, sia stato giustiziato insieme a dei terroristi rende ancora più grave, più brutale e sfacciata la provocazione nei confronti di Teheran».
Lei, un accademico americano di origine iraniana, conosce molto bene gli umori di Teheran. Come reagirà l’Iran?
«Non credo che andrà oltre una reazione violentissima sul piano verbale. Gli iraniani sanno che questa è una provocazione. Riad li spinge a una reazione violenta che ricaccerebbe Teheran nel suo isolamento. Se gli ayatollah usassero la forza, americani ed europei che si sono impegnati in una difficile ripresa del dialogo per rimettere in gioco questo grande Paese, sarebbero costretti a fare marcia indietro».
Sono, però, possibili rappresaglie sui sunniti detenuti nelle carceri iraniane. Comunque si apre una nuova stagione di instabilità: l’incendio delle proteste sciite si sta propagando ovunque, anche fuori dal Medio Oriente, fin nel Kashmir indiano. Ritiene che questa instabilità sia gradita ai russi che sono sì alleati dell’Iran, ma in Siria e altrove tendono a usare più i muscoli che la diplomazia?
«No, non credo affatto che questo scenario sia gradito a Putin. Mosca ora vuole chiudere il conflitto siriano, punta davvero sul successo degli accordi di Vienna. Col riconoscimento di un suo forte ruolo politico, ovviamente. Sono i sunniti che ora, costretti dalla pressione dell’Occidente a sedersi al tavolo della trattativa, la sabotano con le loro azioni improvvise: tanto l’abbattimento di un aereo russo da parte della Turchia quanto le esecuzioni di ieri hanno lo stesso obiettivo».
Sabotaggi coordinati? Nonostante gli sforzi diplomatici dell’America di Barack Obama che ha «sdoganato» l’Iran con l’accordo nucleare ma ha fatto anche di tutto per rinsaldare l’alleanza con la Turchia, un partner della Nato, e l’amicizia con la monarchia saudita appoggiata dagli Usa anche nel conflitto in Yemen?
« Dopo lo schiaffo di Ankara alla Russia, ora Riad colpisce Teheran, ma il prezzo più alto alla fine lo pagherà l’Occidente. Soprattutto l’Europa: col mondo sciita in fiamme, si allontana l’accordo per la soluzione della crisi siriana. Con due conseguenze: un nuovo flusso di profughi verso l’Europa e una maggiore difficoltà nella lotta contro l’Isis che può essere sradicato davvero dalla Siria solo dopo un vero accordo politico tra le fazioni in lotta nel Paese».
Massimo Gaggi
Secondo Vali Nasr, grande esperto di affari mediorientali e rettore della Scuola di studi politici internazionali della Johns Hopkins University di Washington, è tutto chiaro: la monarchia saudita ha deciso di inaugurare il 2016 con 47 esecuzioni per distogliere l’attenzione dai problemi dinastici interni, ma soprattutto per cercare di distruggere i canali di dialogo col regime degli ayatollah. L’obiettivo è quello di tenere l’Iran fuori dai giochi diplomatici che possono restituirgli un ruolo di primo piano nell’area mediorientale, dopo decenni di isolamento.
La raffica di esecuzioni effettivamente è impressionate. 47 in un colpo solo a fronte delle 90 dell’intero 2014 e delle 157 del 2015. Sicuramente una monarchia in difficoltà, quella dei Saud. Ma nel suo mirino non ci sono solo gli sciiti: sono stati mandati a morte anche molti insorti considerati membri o alleati di Al Qaeda, un’organizzazione terroristica di matrice sunnita.
«L’unica esecuzione che conta davvero, sul piano politico, è l’uccisione di un leader religioso sciita. E il fatto che un imam che aveva sostenuto le proteste anti regime durante la primavera araba del 2011, incarcerato e condannato a morte come sovversivo per dei reati d’opinione, sia stato giustiziato insieme a dei terroristi rende ancora più grave, più brutale e sfacciata la provocazione nei confronti di Teheran».
Lei, un accademico americano di origine iraniana, conosce molto bene gli umori di Teheran. Come reagirà l’Iran?
«Non credo che andrà oltre una reazione violentissima sul piano verbale. Gli iraniani sanno che questa è una provocazione. Riad li spinge a una reazione violenta che ricaccerebbe Teheran nel suo isolamento. Se gli ayatollah usassero la forza, americani ed europei che si sono impegnati in una difficile ripresa del dialogo per rimettere in gioco questo grande Paese, sarebbero costretti a fare marcia indietro».
Sono, però, possibili rappresaglie sui sunniti detenuti nelle carceri iraniane. Comunque si apre una nuova stagione di instabilità: l’incendio delle proteste sciite si sta propagando ovunque, anche fuori dal Medio Oriente, fin nel Kashmir indiano. Ritiene che questa instabilità sia gradita ai russi che sono sì alleati dell’Iran, ma in Siria e altrove tendono a usare più i muscoli che la diplomazia?
«No, non credo affatto che questo scenario sia gradito a Putin. Mosca ora vuole chiudere il conflitto siriano, punta davvero sul successo degli accordi di Vienna. Col riconoscimento di un suo forte ruolo politico, ovviamente. Sono i sunniti che ora, costretti dalla pressione dell’Occidente a sedersi al tavolo della trattativa, la sabotano con le loro azioni improvvise: tanto l’abbattimento di un aereo russo da parte della Turchia quanto le esecuzioni di ieri hanno lo stesso obiettivo».
Sabotaggi coordinati? Nonostante gli sforzi diplomatici dell’America di Barack Obama che ha «sdoganato» l’Iran con l’accordo nucleare ma ha fatto anche di tutto per rinsaldare l’alleanza con la Turchia, un partner della Nato, e l’amicizia con la monarchia saudita appoggiata dagli Usa anche nel conflitto in Yemen?
« Dopo lo schiaffo di Ankara alla Russia, ora Riad colpisce Teheran, ma il prezzo più alto alla fine lo pagherà l’Occidente. Soprattutto l’Europa: col mondo sciita in fiamme, si allontana l’accordo per la soluzione della crisi siriana. Con due conseguenze: un nuovo flusso di profughi verso l’Europa e una maggiore difficoltà nella lotta contro l’Isis che può essere sradicato davvero dalla Siria solo dopo un vero accordo politico tra le fazioni in lotta nel Paese».
Massimo Gaggi
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