Se l’Is aveva già giurato vendetta contro Riad, è soprattutto la reazione iraniana a preoccupare, perché potrebbe essere il pretesto per un’escalation che metterebbe a rischio l’intero equilibro mediorientale, dalla Siria al Bahrein. «Il risveglio non si può sopprimere», ha twittato la Guida suprema iraniana Ali Khamenei. Il governo di Teheran ha fatto sapere che Riad pagherà «un prezzo alto» per la morte di Al Nimr: si teme per la sorte di 27 sunniti da tempo nel braccio della morte delle prigioni iraniane. A Teheran è stata data alle fiamme l’ambasciata saudita, mentre a Mashad, nel nord dell’Iran, è stato incendiato il consolato. Riad ha convocato l’ambasciatore iraniano accusando Teheran di «sponsorizzare il terrorismo» e agire in modo «vergognoso».
Ma la rabbia non si limita a Teheran: in Bahrein le tensioni soppresse nel 2012 proprio grazie all’intervento saudita si sono riaccese e la polizia ha sparato lacrimogeni sulla folla. A Qatif, capitale della Provincia orientale saudita, esercito e polizia hanno sorvegliato le manifestazioni di rabbia e proteste ci sono state a Beirut, Sana’a e Bagdad. Particolare preoccupazione desta proprio la situazione interna saudita: gli sciiti sono concentrati nella zona più ricca di petrolio del paese e ogni tensione nell’area avrebbe conseguenze internazionali. «Non possiamo prevedere quello che accadrà — spiega Ali Adubisi dell’European Saudi Organizations for Human Rights, che difende i diritti degli sciiti — la rabbia è a livelli altissimi». Quel che è certo che Riad non si farà cogliere impreparata: nella Provincia orientale ogni forma di dissenso è sempre stata stroncata sul nascere, in un modo o nell’altro. Le conseguenze internazionali della morte di Al Nimr, del resto, erano attese: «Ha avuto un regolare processo — diceva giorni fa un’importante fonte saudita interpellata sull’argomento — non accetteremo ingerenze esterne nei nostri affari».
La notizia della morte di Al Nimr ha fatto in poche ore il giro del mondo: sono arrivate le condanne delle associazioni per i diritti umani («regolamento di conti », ha tuonato Amnesty International) e delle autorità istituzionali: il Dipartimento di stato Usa ha espresso il timore che l’esecuzione «esacerbi le tensioni settarie », mentre l’Alto rappresentante per la Politica estera Ue, Federica Mogherini, ha ribadito «la netta opposizione della Ue al ricorso alla pena capitale».
Al Nimr era stato arrestato nel 2012, in un episodio tuttora avvolto nel mistero: si disse che lui e i suoi uomini avessero accolto la polizia a colpi di arma da fuoco, ma questo contrasta con le parole del religioso, che aveva sempre invitato alla non violenza come mezzo di azione politica. Dalla sparatoria il religioso uscì comunque ferito e non si riprese mai appieno: le immagini delle sue apparizioni in tribunale mostravano un uomo provato, secondo i familiari torturato. Poche settimane dopo, a finire in prigione era stato il nipote diciassettenne, Ali: anche lui era nella lista delle 52 persone che sarebbero state presto mandate a morte, ma per il momento è stato risparmiato insieme ad altri quattro condannati, di cui altri due minorenni al momento dell’arresto.