by Giuseppe Acconcia, il manifesto | 8 Dicembre 2015 10:57
Abbiamo raggiunto al telefono a Parigi Olivier Roy, docente all’Istituto universitario europeo di Firenze, si è occupato di islamismo politico, jihadismo ed è consulente del ministero degli Esteri francese.
Come hanno votato i giovani delle periferie alle elezioni che hanno portato all’affermazione del Front National? Pare che in quei quartieri abbia vinto la sinistra.
La mia impressione è che ci sia stato un forte astensionismo giovanile nelle periferie. Detestano Sarkozy ma si sentono traditi dal discorso politico di Hollande e del premier Valls.
Come giudica la reazione energica di Hollande che ha imposto un lungo stato di emergenza dopo gli attentati del 13 novembre scorso?
Hollande ha voluto riprendere le redini dello stato. Ma l’Is non si vince con le bombe, è necessaria una coalizione politica. L’imposizione dello stato d’emergenza ha avuto un costo politico enorme: ha minacciato l’intero spazio delle libertà politiche.
Il disagio dei giovani musulmani francesi nasce dall’assenza di sinistra?
Sì, un tempo si riconoscevano nei partiti comunisti, soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Poi questi partiti hanno assunto una posizione ambigua su Islam e immigrazione. Anche l’alternativa della sinistra radicale si è ridimensionata per la sua ambiguità in tema di laicità: vedere una ragazza velata era uno scandalo a sinistra. I giovani delle periferie non sopportano il divieto del velo.
E proprio questa depoliticizzazione delle periferie è la causa del fenomeno dei foreign fighters?
I jihadisti non si interessano alla politica francese. Militano nei quartieri periferici ma non costruiscono un discorso politico nelle periferie. Sono anche disinteressati alla politica estera di Hollande, sebbene non abbiano mai sentito una parola seria levarsi dalla sinistra anti-imperialista. Il loro problema principale riguarda la politica interna di Hollande, la mancanza di lavoro, il discorso politico di destra di Valls.
Quindi l’avanzata del fenomeno jihadista è una conseguenza della crisi della rappresentanza democratica?
Certo, io direi della crisi della cittadinanza. Chi si dà all’Islam radicale non si riconosce nella vita politica, si sente escluso e ha interiorizzato questa esclusione. Per esempio, non ci sono partiti musulmani in Europa. A parte in Belgio, non vedo tentativi seri che rappresentino i giovani musulmani, ad esempio in tema di immigrazione.
Riguarda anche il Belgio dove gli attacchi di Parigi sono stati pianificati?
In Belgio c’è una società comunitarista: fiamminghi, da una parte, e valloni dall’altra. Anche gli immigrati si sono adeguati al comunitarismo creando la loro repubblica di Molenbeek.
Sembra poi che i più radicali nel discorso jihadista siano i convertiti?
Chi pensa che il problema sia l’Islam non riesce ad afferrare come sia possibile che non musulmani (cattolici, atei) passino al jihad. Pensano si tratti di musulmani «nascosti». Non è così. I convertiti all’Islam scelgono il salafismo: sono spesso i più religiosi tra i religiosi.
Evidentemente emerge un forte contrasto tra genitori e figli?
I giovani non sono radicati nell’Islam culturale, religioso, linguistico dei padri ma cercano il loro Islam nel discorso salafita.
È così che nascono i foreign fighters?
Si interessano all’Islam mondializzato, sono internazionalisti in un certo senso. Questa è la genialità di Is: fare appello al jihadista globale.
E la risposta arriva dai lupi solitari…
Il jihadismo non è un movimento di massa. Richiama individui non integrati socialmente. E nel mercato della rivolta, Is è in testa.
Perché non funziona l’alternativa dell’Islam politico?
I Fratelli musulmani non sono riusciti a creare un’organizzazione internazionale efficace. Sono un movimento gerontocratico in cui è necessario un apprendistato di cinque anni per poter parlare in pubblico. E poi non sono violenti.
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