by Jacopo Rosatelli, il manifesto | 23 Dicembre 2015 8:44
Elezioni in Spagna. Nulla è come prima. Tre scenari, ma uno solo è il preferito dai mercati e dalle cancellerie europee. I socialisti mai così male ma decisivi per ogni governo. Dal País alla vecchia guardia forti pressioni per una «desistenza» con i popolari nel nome dell’unità del paese. Eppure l’alternativa «zapaterista» è ancora praticabile
Nell’incertezza generale, il giorno dopo il voto spagnolo una cosa è chiara: la formazione del prossimo governo passa dalle scelte del Partito socialista. La malconcia formazione di Pedro Sánchez, infatti, è l’unica che può giocare su più tavoli: è debole, ma indispensabile. La consegna del momento, dunque, è mantenere la calma. Ieri il numero due César Luena si è limitato a dichiarazioni di prammatica: «Tocca al Pp prendere l’iniziativa, noi agiremo con prudenza e responsabilità». Le sirene dei conservatori si fanno sentire: «Dialogheremo con generosità per trovare un’intesa» ha affermato Mariano Rajoy, al quale i socialisti avevano anticipatamente già mandato un avviso di sfratto, promettendo il «no» alla sua rielezione.
Ma siamo solo alle schermaglie iniziali.
Il Psoe è cruciale innanzitutto perché i suoi voti sono gli unici che potrebbero permettere al Pp di formare un esecutivo di minoranza: è l’opzione più semplice. Se Rajoy fosse disposto a farsi da parte (per ora non sembra), l’attuale vicepresidente Soraya Sáenz de Santamaría potrebbe rendere più facile ingoiare il boccone amaro ai socialisti, che – è bene chiarirlo – resterebbero all’opposizione: il loro voto sarebbe un’astensione funzionale all’investitura del nuovo capo del governo.
Senza dubbio, questo è lo scenario più gradito alla gran parte delle cancellerie europee e ai poteri economici, interni e internazionali (i «mercati» hanno suonato il campanello d’allarme: –3,6% alla Borsa di Madrid): «Una coalizione stabile» è l’auspicio formulato ieri dal leader della Confindustria iberica, Joan Rosell.
Una simile operazione avrebbe come sponsor l’influente quotidiano El Paíse l’ex premier socialista Felipe González – e con lui tutta la vecchia guardia del partito. Ma non solo. Anche i leader delle federazioni regionali che nel Psoe contano di più, Andalusia in testa, non si straccerebbero le vesti di fronte a tale opzione all’insegna della «salvaguardia dell’unità di Spagna».
C’è un precedente, a parti invertite: il governo di minoranza del Psoe nei Paesi baschi (2009–2012) grazie all’astensione del Pp.
Un’alternativa alla «desistenza» in favore della destra è, per il Psoe, tentare di conquistare il governo grazie a Podemos e ai centristi di Ciudadanos. Molto improbabile. I numeri ci sarebbero, così come alcune affinità programmatiche. L’ostacolo più grande, però, è quasi insormontabile: le differenze sull’assetto territoriale del Paese. Podemos difende il «diritto a decidere» dei catalani, e quindi un referendum che avvenga solo in quella regione, Ciudadanos è su posizioni opposte, come ribadito ieri dal leader Albert Rivera.
Molto difficile per il Psoe trovare un terreno di intesa sulla riforma federale della Costituzione: troppo per Rivera, troppo poco per Iglesias, che ieri ha chiarito che non appoggerà alcun governo che si opponga al referendum catalano.
Un terzo scenario, quasi da fantascienza, è quello che andrebbe maggiormente incontro alla voglia di cambiamento da sinistra: un accordo dei socialisti con Podemos (e Izquierda unida), ma anche con gli indipendentisti catalani di Esquerra republicana, a cui andrebbero aggiunte le astensioni dei nazionalisti di centrodestra di Democracia e llibertat (catalani) e del Pnv (baschi).
È l’ipotesi a cui forse pensa Podemos, ma ha scarsissime probabilità di vedere la luce: il secessionismo catalano è indigesto a larghi settori del Psoe, come ieri ha voluto mettere in chiaro il leader dei socialisti dell’Estremadura (regione dove il Psoe è primo partito), seguito da altri colleghi.
E tuttavia in politica nulla è impossibile: la base di una simile configurazione potrebbe essere il recupero dell’idea di «Spagna plurale» dell’ex premier José Luis Zapatero, potenziale padre nobile dell’operazione. Il suo primo governo si reggeva proprio su un’intesa con Esquerra republicana e le altre forze delle «nazionalità periferiche» basca e catalana. Era il 2004: le tensioni territoriali non mancavano, ma l’indipendentismo in Catalogna era ultra-minoritario. Oggi le cose sono più complicate.
Le prossime settimane saranno dunque molto travagliate per il Psoe, dove potrebbe anche aprirsi la partita della leadership, mentre il Pp può restare in una posizione di attesa. Il 13 gennaio parte la nuova legislatura, la Costituzione non fissa un limite di tempo ai colloqui del monarca, ma stabilisce che dopo il primo voto di investitura possano trascorrere al massimo due mesi. Al termine dei quali, senza accordi, si tornerebbe inevitabilmente alle urne.
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