Il petrolio Usa dopo 40 anni torna esportabile

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NEW YORK. È un altro capitolo di storia che viene chiuso: l’America rinuncia dopo 40 anni al suo embargo sull’export petrolifero e torna ad affacciarsi sui mercati mondiali, non più come acquirente bensì in veste di venditore di greggio. È l’ultima conseguenza di una rivoluzione energetica che sconvolge le gerarchie planetarie, ridimensiona il peso del Medio Oriente e della Russia a favore dei nuovi produttori. Nuove gerarchie e rapporti di forze saranno ratificati anche nella riforma del Fondo monetario, che darà più peso alla Cina.
Entrambe le novità sono rese possibili dal maxi voto del Congresso di Washington che ha chiuso ieri i lavori legislativi del 2015. Approvando un disegno di legge omnibus, sostanzialmente una legge di bilancio che rifinanzia il bilancio federale, si è evitata una paralisi: segno che sta funzionando la nuova leadership moderata dei Repubblicani affidata al presidente della Camera Paul Ryan. Dentro questa la legge di bilancio ci sono le due novità che più interessano il resto del mondo: petrolio e Fmi.
Il divieto di esportare petrolio non raffinato estratto negli Stati Uniti, risale alla prima crisi energetica: quella scoppiata nel 1973 quando il cartello petrolifero dell’Opec (allora onnipotente e dominato dai produttori arabi) volle punire l’Occidente che aveva appoggiato Israele nella guerra del Kippur. L’embargo Opec creò penurie, razionamenti, iperinflazione, e gettò le economie del G7 in un periodo di crisi. L’America decise che tutto il petrolio dei suoi giacimenti andava riservato al fabbisogno interno, donde il divieto all’export. Non proprio a tenuta stagna, visto che attualmente si esportano circa 500 mila barili al giorno soprattutto verso il Canada. Ma intanto la situazione energetica si è rovesciata. La causa è la rivoluzione tecnologica, con l’avvento di nuovi sistemi di estrazione come le trivellazioni orizzontali e il fracking che hanno reso più competitivi giacimenti un tempo troppo costosi come shale e sabbie bituminose. Risultato: gli Stati Uniti hanno già superato la Russia nella produzione di gas naturale e stanno agguantando l’Arabia Saudita nell’estrazione di greggio. La levata dell’embargo però è stata oggetto di un braccio di ferro tra interessi contrapposti. Da una parte ci sono colossi petroliferi come Continental, Pioneer e ConocoPhillips che ovviamente premevano per ottenere l’apertura delle frontiere. Dall’altra gli ambientalisti, contrari a qualsiasi azione che incentivi l’uso di energie fossili. Ma anche l’industria manifatturiera americana ha cercato di prolungare l’embargo che le ha garantito da anni un costo dell’energia molto più basso rispetto ai concorrenti europei ed asiatici. L’hanno spuntata i petrolieri, e i Repubblicani hanno dato alla decisione un senso geostrategico: l’America potrà aiutare gli alleati europei ad essere meno dipendenti da Russia e mondo arabo.
La riforma del Fondo monetario era necessaria da tempo. Creato nel 1944 alla conferenza di Bretton Woods, con la sua gemella Banca mondiale, questa istituzione sovranazionale incarnava dei rapporti di forze centrati sul predominio degli Stati Uniti. Le nazioni europee vi avevano una rappresentanza sovradimensionata rispetto al peso economico che hanno oggi. La destra repubblicana aveva finora negato il sì del Congresso necessario per redistribuire le quote di azionariato del Fondo, anche in segno di protesta per il salvataggio della Grecia. Da ieri l’ostacolo è stato levato. La riforma può procedere: la Cina conterà di più, l’Europa meno. Ma nel frattempo per reagire alle lentezze di questa riforma Pechino si è mossa da sola cominciando a costruire il primo mattone di un ordine economico alternativo, la nuova banca asiatica degli investimenti in infrastrutture (Aiib).


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