Gilles Kepel: «Il distacco dalla realtà di una classe politica genera gli estremismi»
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«Gli errori della classe politica francese, il suo essere sempre più distaccata dalla realtà, sono alla base di due gravi fenomeni speculari: la crescita della destra estrema legata al Front National e il radicamento degli jihadisti nella comunità musulmana». Gilles Kepel racconta la genesi del terrorismo islamico in Francia all’ombra dei risultati elettorali. Il celebre politologo ci ha dato in anteprima il suo nuovo libro che Gallimard pubblicherà mercoledì prossimo: «Terreur dans l’Hexagone, genèse du djihad français», un’opera importante, attesa, specie dopo gli attentati del 13 novembre .
Dove sta andando la Francia?
«Assistiamo ad un processo di radicalizzazione, cresciuto al tempo delle rivolte violente nelle banlieue dieci anni fa, ma esploso soprattutto dopo la vittoria dei socialisti di François Hollande alle presidenziali del 2012. L’affermazione ora del Front National, sebbene nettamente riequilibrata al secondo turno, è parte dello stesso fenomeno che ha scatenato l’islamismo radicale. Entrambi i casi rappresentano una sfida frontale al vecchio establishment politico. Il 40% degli elettori che scelgono Le Pen al primo turno non sono tutti fascisti. Si tratta piuttosto di persone che manifestano sfiducia e rifiuto per la classe dirigente al potere. E non importa che Sarkozy abbia ora in parte recuperato. Il messaggio è forte, inequivocabile».
Un voto dominato dalla paura, dalla richiesta di sicurezza?
«Certamente. Le simpatie per il Front National sono alimentate dalla mancanza di politiche chiare nei confronti dell’immigrazione del mondo arabo. Impera il timore che possa avvenire quello che i predicatori islamici radicali chiamano “la grande sostituzione della popolazione europea originale” con le masse di musulmani. L’estrema destra, inoltre, raccoglie il malcontento dei tanti che accusano le autorità di non aver saputo prevenire gli attentati del 13 novembre. E intanto si dimentica che la Francia ha una lunga e profonda tradizione di studi islamici. Grazie al nostro passato coloniale, al radicamento in Nord Africa, le nostre università hanno sempre avuto antenne e sensibilità attente. Abbiamo gli strumenti per capire e controbattere. Ma oggi questa tradizione viene ignorata, addirittura smantellata. La nostra debolezza mi ricorda da vicino quella italiana. Stiamo perdendo la sfida con il radicalismo islamico, che è culturale prima che politica. Si combatte nelle scuole, prima che con le armi» .
Nel suo libro si sofferma ad esaminare la perdita di consenso per Hollande tra l’elettorato musulmano dopo il 2012. Come la spiega?
«Fu una caduta clamorosa. Circa l’80% dei musulmani lo aveva scelto. E tra loro anche quelli che definisco la terza generazione tra i figli di immigrati dall’Algeria dopo la decolonizzazione. La generazione da cui oggi vengono tanti terroristi. Solo pochi mesi dopo, quegli stessi elettori ritirarono la loro fiducia per Hollande».
Le cause?
«Sono due. In primo luogo la crisi economica, la disoccupazione galoppante specie tra i musulmani e i nuovi immigrati, che genera rabbia, alienazione. Ma poi anche la scelta socialista di approvare il matrimonio tra omosessuali. Fu allora che gli imam nelle moschee cominciarono a denunciare quelli che definivano “i corrotti corruttori”. La loro campagna divenne culturale, sociale, ancora prima che religiosa. I giovani musulmani già marginalizzati si videro coinvolti in un braccio di ferro identitario sui fondamenti della convivenza civile, della tradizione, della famiglia, del rapporto donna-uomo, dove loro diventavano i paladini della nuova moralità. Il disincanto politico nei confronti dei socialisti e della sinistra laica, tradizionalmente roccaforti della comunità islamica contro il nazionalismo xenofobo, ha così dato spazio ai jihadisti salafiti» .
Quali le radici ideologiche dei nuovi jihadisti?
«Vengono specialmente dall’incapacità dimostrata da Al Qaeda di comunicare con i musulmani europei. Fu evidente dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Nel momento del suo massimo trionfo propagandistico l’organizzazione di Osama bin Laden evidenziava i suoi limiti. Restava verticistica, i suoi comunicati erano tediosi, dottrinali, illeggibili. Fu allora, nel 2005, che apparvero i testi di Abu Musab al Suri, un giovane teologo di origine siriana, passato dalla Spagna e approdato in Francia, il quale ha insistito per creare un’organizzazione reticolare dal basso verso l’alto, fondata sulla militanza via web. Soprattutto Al Suri ha teorizzato la necessità di cambiare obiettivi: non colpire più gli Stati Uniti, concentrarsi invece sull’Europa dai valori deboli, scristianizzata, dubbiosa, vecchia e in crisi, vero ventre molle dell’Occidente, facile da colpire e ancor più da terrorizzare e colonizzare» .
Pregi e difetti della conferenza sulla Libia?
«Un fallimento. La comunità internazionale deve parlare con le tribù, che sono le uniche a controllare il territorio. I politici dei governi di Tripoli e Tobruk non contano più nulla. E’ stato l’errore di Bernardino León dar loro troppa importanza. E continua a essere l’errore dell’Onu e dell’Europa, Italia in testa. C’è inoltre il problema che molte tribù controllano i pozzi petroliferi, vendono greggio alle compagnie straniere, dunque si rafforzano, comprano armi, scelgono o meno di allearsi con Isis» .
Dove sta andando la Francia?
«Assistiamo ad un processo di radicalizzazione, cresciuto al tempo delle rivolte violente nelle banlieue dieci anni fa, ma esploso soprattutto dopo la vittoria dei socialisti di François Hollande alle presidenziali del 2012. L’affermazione ora del Front National, sebbene nettamente riequilibrata al secondo turno, è parte dello stesso fenomeno che ha scatenato l’islamismo radicale. Entrambi i casi rappresentano una sfida frontale al vecchio establishment politico. Il 40% degli elettori che scelgono Le Pen al primo turno non sono tutti fascisti. Si tratta piuttosto di persone che manifestano sfiducia e rifiuto per la classe dirigente al potere. E non importa che Sarkozy abbia ora in parte recuperato. Il messaggio è forte, inequivocabile».
Un voto dominato dalla paura, dalla richiesta di sicurezza?
«Certamente. Le simpatie per il Front National sono alimentate dalla mancanza di politiche chiare nei confronti dell’immigrazione del mondo arabo. Impera il timore che possa avvenire quello che i predicatori islamici radicali chiamano “la grande sostituzione della popolazione europea originale” con le masse di musulmani. L’estrema destra, inoltre, raccoglie il malcontento dei tanti che accusano le autorità di non aver saputo prevenire gli attentati del 13 novembre. E intanto si dimentica che la Francia ha una lunga e profonda tradizione di studi islamici. Grazie al nostro passato coloniale, al radicamento in Nord Africa, le nostre università hanno sempre avuto antenne e sensibilità attente. Abbiamo gli strumenti per capire e controbattere. Ma oggi questa tradizione viene ignorata, addirittura smantellata. La nostra debolezza mi ricorda da vicino quella italiana. Stiamo perdendo la sfida con il radicalismo islamico, che è culturale prima che politica. Si combatte nelle scuole, prima che con le armi» .
Nel suo libro si sofferma ad esaminare la perdita di consenso per Hollande tra l’elettorato musulmano dopo il 2012. Come la spiega?
«Fu una caduta clamorosa. Circa l’80% dei musulmani lo aveva scelto. E tra loro anche quelli che definisco la terza generazione tra i figli di immigrati dall’Algeria dopo la decolonizzazione. La generazione da cui oggi vengono tanti terroristi. Solo pochi mesi dopo, quegli stessi elettori ritirarono la loro fiducia per Hollande».
Le cause?
«Sono due. In primo luogo la crisi economica, la disoccupazione galoppante specie tra i musulmani e i nuovi immigrati, che genera rabbia, alienazione. Ma poi anche la scelta socialista di approvare il matrimonio tra omosessuali. Fu allora che gli imam nelle moschee cominciarono a denunciare quelli che definivano “i corrotti corruttori”. La loro campagna divenne culturale, sociale, ancora prima che religiosa. I giovani musulmani già marginalizzati si videro coinvolti in un braccio di ferro identitario sui fondamenti della convivenza civile, della tradizione, della famiglia, del rapporto donna-uomo, dove loro diventavano i paladini della nuova moralità. Il disincanto politico nei confronti dei socialisti e della sinistra laica, tradizionalmente roccaforti della comunità islamica contro il nazionalismo xenofobo, ha così dato spazio ai jihadisti salafiti» .
Quali le radici ideologiche dei nuovi jihadisti?
«Vengono specialmente dall’incapacità dimostrata da Al Qaeda di comunicare con i musulmani europei. Fu evidente dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Nel momento del suo massimo trionfo propagandistico l’organizzazione di Osama bin Laden evidenziava i suoi limiti. Restava verticistica, i suoi comunicati erano tediosi, dottrinali, illeggibili. Fu allora, nel 2005, che apparvero i testi di Abu Musab al Suri, un giovane teologo di origine siriana, passato dalla Spagna e approdato in Francia, il quale ha insistito per creare un’organizzazione reticolare dal basso verso l’alto, fondata sulla militanza via web. Soprattutto Al Suri ha teorizzato la necessità di cambiare obiettivi: non colpire più gli Stati Uniti, concentrarsi invece sull’Europa dai valori deboli, scristianizzata, dubbiosa, vecchia e in crisi, vero ventre molle dell’Occidente, facile da colpire e ancor più da terrorizzare e colonizzare» .
Pregi e difetti della conferenza sulla Libia?
«Un fallimento. La comunità internazionale deve parlare con le tribù, che sono le uniche a controllare il territorio. I politici dei governi di Tripoli e Tobruk non contano più nulla. E’ stato l’errore di Bernardino León dar loro troppa importanza. E continua a essere l’errore dell’Onu e dell’Europa, Italia in testa. C’è inoltre il problema che molte tribù controllano i pozzi petroliferi, vendono greggio alle compagnie straniere, dunque si rafforzano, comprano armi, scelgono o meno di allearsi con Isis» .
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