Censis. Siamo un popolo di navigatori (a vista)

by Marco Revelli, il manifesto | 5 Dicembre 2015 8:33

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È «la società del resto». Una buona formula per fotografare l’Italia di oggi. «È come quando – scrive De Rita -, girando per il Paese, tu chiedi a qualcuno come va: lui ti dice che va tutto male, il lavoro, la macchina, la moglie. E allora tu chiedi: e il resto? E la risposta è sempre: il resto va bene».

Una risposta non propriamente rassicurante, perché «il resto» è ciò che sta fuori dall’asse centrale delle priorità assorbenti, dei pensieri dominanti, nella quotidianità privata come nella vita pubblica. In effetti, da questo ultimo Rapporto Censis, non escono propriamente squilli di fanfara per il governo, né conferme alla sua narrazione sull’«Italia che riparte». Emerge piuttosto l’immagine in bianco e nero di un Paese in difficoltà – «in letargo esistenziale collettivo», come consegnato in «un limbo».

Un Paese che cerca di difendersi come può, mettendo in campo strategie individuali o di piccolo gruppo, frammentate e locali, in assenza di un “progetto generale di sviluppo” che non si aspetta più da nessuno, men che meno da chi gli racconta di averlo e di pazientare perché presto si vedrà. Un Paese che comunque stenta a immaginare un futuro, subendo il proprio arretramento. O giocando mosse prevalentemente difensive (l’esatto opposto di ciò che si proporrebbero le terapie psicologiche dopanti somministrate dall’alto).

Lo dicono quei 3,1 milioni di famiglie che negli ultimi 12 mesi hanno dovuto intaccare i propri risparmi pregressi “per fronteggiare gap di reddito rispetto alle spese mensili”. Ma anche, paradossalmente, gli altri 10 milioni e mezzo (un po’ meno della metà delle famiglie italiane, che sono in tutto 24 milioni e 512 mila), che sono riuscite, anche negli anni della crisi, nonostante tutto, a mettere un po’ di fieno in cascina e a risparmiare qualcosa, ma lo tengono lì, disponibile – “a scopo cautelativo”, dice il Censis, “per finanziare la formazione dei figli, per i bisogni della vecchiaia, per paura di perdere il posto di lavoro” -, stoccato in contanti e depositi (che infatti sono saliti di più di sette punti tra il 2007 e il 2014, dal 23,6% al 30,9).O tutt’al più in assicurazioni e in fondi pensione (passati dal 14,8% al 20,9), anziché, “rischiarli”, come ai bei tempi della finanza creativa, in azioni e obbligazioni (crollate infatti di più di otto punti percentuali, dal 31,8% al 23,7).

Un popolo di navigatori a vista, dunque, preoccupati e ricondotti alla sobrietà e a una sacrosanta prudenza da un orizzonte percepito indubbiamente come incerto e non rassicurante. In primo luogo sul terreno – costitutivo di ogni progetto di vita – del lavoro, dal momento che l’unico, reale aumento dell’occupazione (un milione netto) si è registrato tra i “lavoratori anziani”, a cavallo dei sessant’anni, trattenuti “per decreto” nel recinto della “popolazione attiva” dall’innalzamento dell’età pensionabile.

Mentre per gli altri, soprattutto per i giovani, il quadro resta nerissimo, con quasi due milioni e mezzo di “scoraggiati”, e tre milioni e mezzo di sottoccupati e di part-time involontari. E con un welfare in costante restringimento (quasi otto milioni gli italiani si sono “indebitati o hanno chiesto un aiuto economico per far fronte a spese sanitarie private”, e un 68% di famiglie a basso reddito ha al suo interno almeno un membro che ha dovuto rinunciare alle cure per mancanza di mezzi).

Non stupisce che in un contesto strutturale così spaventosamente liquido e deprivato, l’azione collettiva scivoli fuori dall’orizzonte esistenziale. Che il “collettivo” stesso appaia come categoria obsoleta, d’altro secolo, d’altro universo sociale, e in primo piano domini, in un mondo di solitudini, l’istinto di sopravvivenza nella sua forma più elementare del “serba te ipsum”: ciò che don Milani, in un altro tempo, chiamava l’”avarizia” in contrapposizione con la “politica (uscire dai guai “tutti insieme” anziché “da soli”).

E’ questo, forse, l’elemento più inquietante del Rapporto Censis di quest’anno: quest’appassimento della fiducia nell’azione comune, che rende tutto più opaco e dimidiato: una società non più “di mezzo”, ricca di corpi intermedi, aggregazioni e gruppi coesi, com’era nell’idea deritiana di struttura virtuosa, ma una società “dimezzata” o, come scrive citando Turati, a “mezze tinte, mezze classi, mezzi partiti, mezze idee e mezze persone”… In cui la gente continua la propria vita quotidiana, fuori da un’emergenza conclamata: ha ripreso a consumare, a stipulare mutui, a pensare di comprar casa o cambiare l’auto. Ma a basso regime, lungo le infinite sfumature di grigio, nel segno di un piccolo cabotaggio. Cosicché si può dire che questa nuova lettura del Censis non è più da “tempo di crisi”. Sta già nel post: dice che questo tono basso sarà la normalità futura, perché la crisi non è stata una “parentesi” – dopo la quale si riparte alla grande, o come prima -, ma una metamorfosi il cui risultato è questo, qui fotografato.

E il “resto”, di cui si parlava all’inizio? Dove sta il resto, che evidentemente non è solo l’irrilevante. O il marginale inerte. De Rita conclude quella frase in questo modo: “Ecco, l’Italia è così: il resto ha dentro di sé un’energia misteriosa…”. E l’energia misteriosa è l’”ibridazione”: la rete lenticolare di saperi e di mestieri che le (finte) politiche di governo, o le atroci “leggi obiettivo”, o i famigerati “sblocca Italia” non vedono nemmeno, ma che lavora sotto traccia nell’iniziativa di una molteplicità di atomi laboriosi che coniugano “qualità, saper fare artigiano, estetica, brand”. O nel rianimarsi di quello “scheletro contadino” che sembra rinverdire nelle pratiche di “ritorno” e di “resilienza” di territori fino a ieri considerati “ai margini”. I segni, appena deboli tracce, di un possibile “collettivo” del futuro.

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