I contrasti sulla valutazione dei crediti che alimentano i dissidi con l’Europa
Print this article Font size -16+
Non si ricorda nei decenni di storia comunitaria una disfida del genere, a colpi di carte e controdeduzioni su un evento già consumato. Chiuso, deciso. Con vincenti e perdenti, ma comunque tale da non poter essere più cambiato.
Non lo si ricorda sicuramente fra l’Italia e la Commissione Ue, eppure l’intensità degli scambi è tale da far sospettare che questo non sia tanto uno scontro sul passato. La politica entra in fibrillazione solo quando la posta in gioco è il futuro.
La vicenda dei quattro istituti «risolti» riparte da qui: da ciò che rivela sul ruolo delle banche e sul posto dell’Italia nell’area euro da oggi in poi. La prima evidenza è che l’unione bancaria è entrata subito in tensione: per far fronte ai dissesti esistono solo risorse nazionali, ma versate sulla base un punitivo sistema di regole comuni fatte rispettare dall’esterno. Per quanto discutibili siano le norme europee appena entrate in vigore, molti protagonisti nel Paese vi sono arrivati impreparati. Non erano mancate le messe in guardia: il 23 ottobre del 2013 la Banca centrale europea aveva reso nota una lettera in cui concordava in principio con l’idea di far assorbire certe perdite delle banche ai creditori più esposti; ma notava che è saggio non applicare le norme in modo impropriamente restrittivo. La stessa Banca d’Italia nel novembre del 2013 aveva avvertito dei problemi nelle nuove norme; aveva ricordato il rischio che, bruciando obbligazioni emesse prima sulla base ai altre leggi, si violassero i diritti di proprietà dei trattati europei.
In Italia non se n’è accorto nessuno. La politica non ne ha parlato, benché a fine febbraio 2014 abbia votato praticamente in blocco per la nuova direttiva bancaria, sia nell’europarlamento che nel Consiglio dei ministri Ue.
Il resto della posta in gioco però è anche più complesso, perché riguarda il ruolo dell’Italia nell’area euro. Ed è qui che i dissensi fra Roma e Bruxelles sui bilanci bancari diventano importanti. L’operazione sulla Cassa di Teramo, con contributi volontari e fiscalmente deducibili da parte delle altre banche, dimostra che il Paese sa ancora trovare soluzioni efficienti. Ma è sul «salvataggio» di Banca Etruria e Marche e delle Casse di Ferrara e Chieti che gli scogli europei sono venuti fuori. Nel suo rapporto di ieri il Tesoro fa capire che l’intervento del Fondo interbancario era stato disegnato dal governo e della Banca d’Italia in modo rigoroso, ma non traumatico. Le perdite sui crediti inesigibili dei quattro istituti sarebbero state quelle già registrate dalla gestione straordinaria dei commissari. Il capitale sarebbe stato abbattuto, non cancellato o portato i n negativo. Azzerati o quasi i soci, per ricostituire il patrimonio sarebbe bastato convertire in azioni le obbligazioni subordinate. Ci sarebbero state perdite, non un disastro. E dal Fondo interbancario di tutela dei depositi sarebbe stata sufficiente un contributo da 2,2 miliardi.
È qui che la Commissione Ue ha frenato. Per lei le banche andavano «risolte» in base alla nuova normativa europea, cioè liquidate salvandone le parti buone. Gli obbligazionisti subordinati e gli azionisti dovevano perdere tutto per sempre. Costo dell’operazione (finanziato dal Fondo di risoluzione, sempre pagato dalle altre banche italiane), 3,7 miliardi.
La chiave è in quella differenza di un miliardo e mezzo fra 2,2 e 3,7. Sappiamo infatti che la soluzione impostasi, quella gradita a Bruxelles, svaluta i crediti in default delle quattro banche fino ad appena al 17,6% del valore originario. Si può dunque immaginare che l’operazione da 2,2 miliardi proposta dall’Italia trattasse quegli stessi crediti al valore di bilancio intorno al 40%: un miliardo e mezzo di perdite in meno. Quel prezzo al 17,6% che piace a Bruxelles è da liquidazione, da vendita al più presto domattina. Il 40% che prevale nei bilanci delle banche in Italia per i crediti in difficoltà invece è un valore di lungo periodo: a volte dietro ci sono anche ville a garanzia, o aziende in crisi che ripartono. E questa forbice fra le due letture è esattamente ciò che oggi blocca un intervento di sistema in Italia per rimuovere dalle banche italiane ben 200 miliardi di prestiti in default.
Questa misura complessiva del governo resta urgente. Serve a rimettere a posto il sistema del credito nel Paese e far ripartire gli investimenti. Ma applicare a tappeto ai prestiti in default gli sconti da liquidazione stimati da Bruxelles, equivale a far emergere un brutale, sproporzionato buco nei bilanci delle banche italiane. Per questo si è arrivati allo stallo. E stare fermi, quando serve una ripresa, è davvero scomodo.
Non lo si ricorda sicuramente fra l’Italia e la Commissione Ue, eppure l’intensità degli scambi è tale da far sospettare che questo non sia tanto uno scontro sul passato. La politica entra in fibrillazione solo quando la posta in gioco è il futuro.
La vicenda dei quattro istituti «risolti» riparte da qui: da ciò che rivela sul ruolo delle banche e sul posto dell’Italia nell’area euro da oggi in poi. La prima evidenza è che l’unione bancaria è entrata subito in tensione: per far fronte ai dissesti esistono solo risorse nazionali, ma versate sulla base un punitivo sistema di regole comuni fatte rispettare dall’esterno. Per quanto discutibili siano le norme europee appena entrate in vigore, molti protagonisti nel Paese vi sono arrivati impreparati. Non erano mancate le messe in guardia: il 23 ottobre del 2013 la Banca centrale europea aveva reso nota una lettera in cui concordava in principio con l’idea di far assorbire certe perdite delle banche ai creditori più esposti; ma notava che è saggio non applicare le norme in modo impropriamente restrittivo. La stessa Banca d’Italia nel novembre del 2013 aveva avvertito dei problemi nelle nuove norme; aveva ricordato il rischio che, bruciando obbligazioni emesse prima sulla base ai altre leggi, si violassero i diritti di proprietà dei trattati europei.
In Italia non se n’è accorto nessuno. La politica non ne ha parlato, benché a fine febbraio 2014 abbia votato praticamente in blocco per la nuova direttiva bancaria, sia nell’europarlamento che nel Consiglio dei ministri Ue.
Il resto della posta in gioco però è anche più complesso, perché riguarda il ruolo dell’Italia nell’area euro. Ed è qui che i dissensi fra Roma e Bruxelles sui bilanci bancari diventano importanti. L’operazione sulla Cassa di Teramo, con contributi volontari e fiscalmente deducibili da parte delle altre banche, dimostra che il Paese sa ancora trovare soluzioni efficienti. Ma è sul «salvataggio» di Banca Etruria e Marche e delle Casse di Ferrara e Chieti che gli scogli europei sono venuti fuori. Nel suo rapporto di ieri il Tesoro fa capire che l’intervento del Fondo interbancario era stato disegnato dal governo e della Banca d’Italia in modo rigoroso, ma non traumatico. Le perdite sui crediti inesigibili dei quattro istituti sarebbero state quelle già registrate dalla gestione straordinaria dei commissari. Il capitale sarebbe stato abbattuto, non cancellato o portato i n negativo. Azzerati o quasi i soci, per ricostituire il patrimonio sarebbe bastato convertire in azioni le obbligazioni subordinate. Ci sarebbero state perdite, non un disastro. E dal Fondo interbancario di tutela dei depositi sarebbe stata sufficiente un contributo da 2,2 miliardi.
È qui che la Commissione Ue ha frenato. Per lei le banche andavano «risolte» in base alla nuova normativa europea, cioè liquidate salvandone le parti buone. Gli obbligazionisti subordinati e gli azionisti dovevano perdere tutto per sempre. Costo dell’operazione (finanziato dal Fondo di risoluzione, sempre pagato dalle altre banche italiane), 3,7 miliardi.
La chiave è in quella differenza di un miliardo e mezzo fra 2,2 e 3,7. Sappiamo infatti che la soluzione impostasi, quella gradita a Bruxelles, svaluta i crediti in default delle quattro banche fino ad appena al 17,6% del valore originario. Si può dunque immaginare che l’operazione da 2,2 miliardi proposta dall’Italia trattasse quegli stessi crediti al valore di bilancio intorno al 40%: un miliardo e mezzo di perdite in meno. Quel prezzo al 17,6% che piace a Bruxelles è da liquidazione, da vendita al più presto domattina. Il 40% che prevale nei bilanci delle banche in Italia per i crediti in difficoltà invece è un valore di lungo periodo: a volte dietro ci sono anche ville a garanzia, o aziende in crisi che ripartono. E questa forbice fra le due letture è esattamente ciò che oggi blocca un intervento di sistema in Italia per rimuovere dalle banche italiane ben 200 miliardi di prestiti in default.
Questa misura complessiva del governo resta urgente. Serve a rimettere a posto il sistema del credito nel Paese e far ripartire gli investimenti. Ma applicare a tappeto ai prestiti in default gli sconti da liquidazione stimati da Bruxelles, equivale a far emergere un brutale, sproporzionato buco nei bilanci delle banche italiane. Per questo si è arrivati allo stallo. E stare fermi, quando serve una ripresa, è davvero scomodo.
Federico Fubini
Tags assigned to this article:
Banca centrale europeaBanca d'ItaliaBanca EtruriaCommissione europeadecreto salva-banchefondo interbancarioRelated Articles
India, 13 uccisi dalla polizia nel Tamil Nadu, protestavano contro l’inquinamento
INDIA. Sfocia nel sangue la lotta degli abitanti, che dura da vent’anni. E ora chi critica le forze dell’ordine finisce in carcere
Ecco l’arma segreta di Hollande, il grande favorito senza carisma
Lo sfidante socialista reso imbattibile dall’impopolarità di Sarkozy L’onda d’urto della pacifica normalità di Hollande
Camusso cauta: «Aspetto il testo, temo sorprese»
«Quando ci sarà un testo scritto della riforma del lavoro, vi diremo se c’è un passo avanti. Non vorremmo ritrovarci sorprese, come in altre occasioni».
No comments
Write a comment
No Comments Yet!
You can be first to comment this post!