Fu lei a “convincere” Luigino ad investire i suoi risparmi in obbligazioni subordinate?
«Sì, Luigino fu uno dei primi clienti della banca a cui proposi questo investimento».
Lo mise al corrente dei reali rischi che correva in questo tipo di operazione?
Gli occhi si inumidiscono. «Firmò il questionario che sottoponevamo a tutti, nel quale c’era scritto che il rischio era minimo per questo tipo di operazione».
Una bugia scritta in un contratto?
«In realtà nelle successive carte che il cliente firmava, era presente la dicitura “alto rischio”, ma quasi nessuno ci faceva caso. Era scritto in un carteggio di 60 fogli».
E voi impiegati non mettevate al corrente i clienti?
«Avevamo l’ordine di convincere più clienti possibili ad acquistare i prodotti della banca, settimanalmente eravamo obbligati a presentare dei report con dei budget che ogni filiale doveva raggiungere. L’ultimo della lista veniva richiamato pesantemente dal direttore ».
Eravate però perfettamente al corrente di cosa significasse vendere ai vostri clienti delle obbligazioni subordinate, giusto?
«Sì. Ogni anno c’era un aumento del capitale e per farlo dovevamo chiamare tutti i clienti e fargli rivedere azioni, obbligazioni, etc».
Che rapporto aveva lei con Luigino?
«Lo conoscevo benissimo, sia lui che la moglie Lidia. Era uno dei clienti più diffidenti e convincerlo a fare proprio quel tipo di investimento non fu facile».
Ma lei nella sua filiale è ricordato per essere quello sempre in cima alla classifica dei report settimanali.
«Sapevo fare bene il mio lavoro. E quando mi resi conto che l’emissione delle obbligazioni subordinate era troppo frequente da parte della banca Etruria capii che era possibile un imminente fallimento. Mi venne in mente dunque di mettere al riparo alcuni clienti, tra cui appunto Luigino. Per cercare di far avere loro la liquidazione sia delle subordinate che delle ordinarie, proposi di fare una gestione di fondo. Ricordo che dissi a Luigino: “Non succederà mai niente alla banca, ma se dovesse in questo modo salvi i tuoi risparmi». Ma lui non volle farlo: il suo problema era che voleva un rendimento semestrale cosa che la gestione del fondo non gli garantiva. Accettarono solo una quarantina di clienti, svuotai il comparto delle obbligazioni. Gli altri sono andati a finire come lui: hanno perso tutto».
Pare di capire che la linea fosse quella di mentire al cliente, o meglio, di omettere verità. È così?
«È così. Quando i clienti venivano a chiederci la liquidità la banca ci diceva di rispondere che non ne aveva e che non sapevamo quando sarebbe stata disponibile. Quando si facevano insistenti, dovevamo dirgli che quelle obbligazioni erano finite nel mercato secondario e che non si vendevano».
Un castello di menzogne senza che la coscienza di nessuno di voi, lei compreso, avesse un sussulto?
«Eravamo tutti in una sorta di sudditanza psicologica. Dal 2007 al 2014 le azioni sono crollate da 17 euro e rotti a 1 euro e 50 e questo era indicativo del fatto che dovevamo dirottare le entrate su altri prodotti e che dovevamo fargli acquistare la qualunque, anche le subordinate. Avendo ingolfato i creditori medio-piccoli tutti noi convincevamo i più danarosi assicurandogli che sarebbe stato un bene per loro, un affare seguendo i nostri consigli. E poi via con lo slalom di bugie, rassicurazioni e risposte evasive».
Ha parlato di pressioni psicologiche.
«All’interno della banca ci dicevano che la banca era sull’orlo del fallimento, e che l’aumento di capitale serviva a salvarci e che se non ci fossimo dati da fare la banca avrebbe chiuso e noi saremmo stati licenziati. Ecco perché ognuno di noi convinceva più clienti possibili».
La logica del mors tua vita mea l’ha spinta a tradire la fiducia dei suoi clienti?
Scoppia a piangere Marcello Benedetti. «Questa è la cosa che non mi perdonerò mai. Aver tradito chi credeva in me. E alla luce della tragedia accaduta al signor Luigino, so che non potrò mai trovare pace né perdonarmi».