Ma in futuro, quando le drammatiche immagini spariranno dai nostri televisori, che accadrà? Non devono svarire dalla nostra coscienza. Perchè è adesso che inizia il vero lavoro. In media un rifugiato vive infatti in esilio almeno 15 anni, che si trovi in un campo in Giordania, in un insediamento improvvisato in Libano o Thailandia, o che sia dislocato negli Usa o in Europa. Periodi lunghi: per questo dobbiamo impegnarci affinché i rifugiati diventino membri produttivi e collaborativi della nostra società. Il lavoro consisterà nel garantire che abbiano accesso all’istruzione e alla formazione professionale. È nell’interesse di tutti.
Troppo spesso i rifugiati sono considerati un peso, ma nella realtà sono membri dinamici della società. Einstein era un rifugiato, come Marlene Dietrich, Madeleine Albright, George Soros, Sigmund Freud, Isabelle Allende, per citarne soltanto alcuni. Vi sono però milioni di sconosciuti non meno eroici, che lavorano tranquilli, pur in circostanze difficili e pericolose. Come Aqeela Asifi, alla quale l’Unhcr quest’anno assegna il Nansen Refugee Award a riconoscimento del suo impegno eccezionale. Nel 1992, a 26 anni, Asifi scappò da Kabul, in Afghanistan, insieme al marito e ai figli piccoli, approdando nel campo profughi di Kot Chandana in Pakistan. Pensava di fermarsi solo pochi mesi. Perchè nel fuggire dal proprio paese ci si concentra sull’immediato, si vogliono proteggere i figli e trovare un riparo sicuro. Si pensa a sopravvivere. Ci vuole tempo per elaborare il fatto che tornare a casa è un sogno remoto; che la vita deve ripartire da zero. Quando questo si accetta subentra un cambiamento: si passa alla resilienza che si accompagna alla determinazione a crearsi una nuova vita. Essendo un’insegnante, Asifi non voleva lasciare i suoi figli e altri bambini senza istruzione. Dopo aver ottenuto il sostegno degli anziani del villaggio convinse i genitori riluttanti a permetterle di diventare la maestra delle loro figlie. Così, con 20 alunne, una tenda, testi scritti a mano su comuni fogli di carta e una fiera determinazione, avviò una scuola. Quella piccola scuola ha prosperato e ricevuto finanziamenti dal governo pachistano: si è allargata a sei tende iniziando ad accogliere anche le bambine pachistane. Oggi è un edificio vero: dove Asifi ha trasformato la vita di oltre mille bambine e incoraggiato l’apertura di altre 6 scuole, che accolgono altri 1500 bambini e bambine.
Sono uno scrittore e credo più nella forza delle parole che in quella dei numeri. Ma qui, ai margini della favola di Asifi, sono vergate cifre che non possiamo ignorare. L’Unhcr sa che gli afgani colti hanno tre volte di più la possibilità un domani di tornare a casa. L’istruzione, invece di incatenare i rifugiati al Pakistan, è stato il fattore che ha spinto la gente a tornare in Afghanistan. L’istruzione tutela i figli dei rifugiati dall’analfabetismo, dai maltrattamenti, dallo sfruttamento e dal lavoro minorile, dai matrimoni precoci forzati, dal reclutamento dei gruppi armati. L’istruzione offre un percorso per uscire dalla povertà, competenze per costruire per sé e per la loro patria un futuro stabile e prospero. Nel mondo oltre il 50% dei rifugiati è formato da bambini. Eppure, solo uno su due frequenta le elementari. E solo un adolescente su quattro ha un’istruzione scolastica superiore. Per questo mi auguro che quando i riflettori sulla crisi si spegneranno la buona volontà nei confronti dei rifugiati resti forte. Spero che ci ricorderemo che non hanno bisogno di aiuto solo in emergenza ma della speranza di un futuro, come tutti noi. Spero che ricorderemo che i rifugiati lasciano contributi importanti e duraturi nei paesi che li ospitano. E che investire nel loro futuro significa investire anche nel nostro.
Khaled Hosseini è Ambasciatore di buona volontà dell’Unhcr, l’Agenzia per i rifugiati dell’Onu.
Traduzione di Anna Bissanti
La strage degli innocenti avviene davanti alle porte chiuse dell’Europa: sono almeno 700, secondo i conti della “Fondazione Migrantes”, i bambini annegati nel Mediterraneo durante il 2015 mentre cercavano di raggiungere la Terra promessa, quella dove la guerra e i suoi orrori non avrebbero potuto toccarli. Monsignor Gian Carlo Perego, direttore della Fondazione, parla di «strage silenziosa» e sottolinea che quest’anno sono già oltre 3.200 i morti, più del doppio dell’anno passato. Anche ieri un barcone partito dalla Turchia si è rovesciato nell’Egeo, al largo della piccola isola greca di Farmakonisi. Undici persone (fra cui cinque bambini) sono morte al largo delle coste greche. «L’Europa trova risorse per bombardare, ma non per salvare vittime innocenti», accusa il monsignore: «L’operazione Triton non ha saputo rafforzare il salvataggio in mare delle vite umane rispetto all’italiana Mare Nostrum: una vergogna che pesa sulla coscienza europea». Mentre Berlino introduce una carta di identità per i profughi, Angelino Alfano, ministro dell’Interno, respinge le critiche all’Italia: «Altro che procedura di infrazione, l’Europa deve solo dirci grazie».
( g. cad.)
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