Una zona cuscinetto e 10mila soldati il piano di Erdogan per l’emergenza Siria

by redazione | 12 Novembre 2015 18:40

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PIÙ di 10mila soldati turchi, in 46 chilometri di territorio siriano, a partire dall’inizio di dicembre. E’ il nuovo piano di Ankara. Scopo dichiarato: costituire una zona cuscinetto per proteggere gli oltre 2 milioni di profughi siriani già presenti alla frontiera turca, e imprimere una svolta alla guerra contro il Califfato islamico. Obiettivo segreto: mettere i piedi in Siria, soprattutto nella zona del Rojava, quella cioè abitata dalla minoranza curda, il cosiddetto Kurdistan siriano.
Forte dell’inatteso, persino per il suo partito, risultato elettorale del 1 novembre, che gli ha assegnato il 49,35% dei voti e la maggioranza assoluta in Parlamento, Recep Tayyip Erdogan non ha perso tempo. Il presidente turco in poco più di dieci giorni ha licenziato qualche altra decina di giornalisti legati ai media dell’opposizione, ha dichiarato come «inaccettabili » i rilievi europei al rapporto annuale sullo stato del Paese («influenzato dal linguaggio usato dagli ambienti vicini al Pkk», ha detto il suo portavoce), e si prepara ora a una mossa internazionale che presto dovrà essere discussa.
Il piano è stato anticipato ieri dal quotidiano filo-governativo Yeni Shafak. Il governo turco si prepara a dispiegare 10.700 truppe in Siria entro la metà di dicembre per combattere contro lo Stato Islamico e creare aree sicure nel nord del Paese. Ankara ha preparato un documento di 51 pagine, che sarà presentato alle Grandi potenze al G20 di domenica ad Antalya, proprio in Turchia. Dopo aver verificato che la pressione del regime siriano e i bombardamenti americani e russi stanno spingendo i jihadisti fino al confine con la Turchia, dove vivono siriani di etnia turca che Ankara vuole proteggere, lo studio afferma che le proprie truppe potranno penetrare fino a 46 chilometri in territorio siriano. Diffondendosi in 7 regioni. Il momento scelto sarebbe quelle delle prime due settimane di dicembre.
L’ampia operazione di terra servirebbe anche a creare aree sicure dove potrebbero soggiornare fino a 5 milioni di profughi siriani per 10 anni, offrendo così una soluzione – spiega il governo turco – al flusso di migranti verso l’Europa occidentale. Il piano dovrebbe includere 6 campi principali per rifugiati, 11 basi logistiche e 17 “punti di sicurezza” per la cui esecuzione Ankara chiederà aiuto economico ai Paesi del G20.
Una proposta in stile “prendere o lasciare”, quella dell’abilissimo Presidente turco. Il quale, dopo il sostegno ricevuto pochi giorni prima del voto dalla visita di Angela Merkel e da una Europa che ha posticipato il proprio duro rapporto a dopo le elezioni (regalando, secondo alcuni osservatori, qualche punto in percentuale al partito di governo), oggi presenta la sua proposta contenente non pochi punti di interesse, e altrettantidubbi. Erdogan infatti, oltre alla protezione dei migranti (è da ricordare che Ankara sostiene quasi completamente su di sé il peso di oltre 2 milioni di profughi siriani), chiede una zona sicura già dentro la Siria. L’area non è lontano da Kobane, dove lo scorso anno le truppe tur- che, nonostante gli appelli internazionali, mai intervennero a difesa dei curdi massacrati dai jihadisti durante l’assedio della città, sotto Azaz e Jarabulus. L’idea, già circolata, ha avuto finora un’accoglienza piuttosto tiepida presso le potenze mondiali, anche se Ankara negli ultimi giorni ha fatto capire che l’Occidente si starebbe convincendo. «Vanno prese iniziative più realistiche per una soluzione che comprenda in particolare la nostra proposta di stabilire una zona sicura libera dal terrorismo», ha detto il capo dello Stato turco.
Erdogan appare come sempre molto convinto di sé. La vittoria del partito di governo, ha detto, darà alla Turchia l’opportunità di grandi iniziative per le crisi della regione. Secondo il Presidente, dopo il risultato elettorale «non c’è più incertezza politica nel Paese». Il leader di Ankara, con un’apparente riferimento all’intervento russo in Siria, ha poi lanciato quello che ha definito come un «avvertimento amichevole», e affermato che chi getta benzina sul conflitto, finirà per bruciare nello stesso fuoco.
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