Sulla conferenza di Parigi l’ombra di Big Oil la sfida è sull’addio all’era di gas e petrolio

by redazione | 7 Novembre 2015 8:59

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PARIGI Non salverà il pianeta. Ma, dopo Parigi, sarà più credibile pensare che possa essere salvato. A tre settimane dall’avvio del più grande vertice sul clima, dopo il mega flop del 2009 a Copenhagen, le opinioni sono già divise lungo un crinale che, probabilmente, si ripresenterà identico al termine dei lavori nella capitale francese. Per i realisti (o cinici, secondo un altro punto di vista) da Parigi uscirà un accordo storico, un clamoroso passo in avanti: Obama che blocca Keystone XL, l’oleodotto dal Canada, ne è una anticipazione. Per gli idealisti (o bene informati, secondo un’altra angolazione) sarà un accordo monco, che non basta ad impedire che la temperatura del pianeta sfondi l’aumento di 2 gradi che gli scienziati hanno posto come limite, oltre il quale c’è la catastrofe climatica. Ieri, gli idealisti hanno segnato un punto a loro favore. I tecnici dell’Unep, cioè dell’Onu, hanno chiarito che gli impegni che i vari governi hanno assunto finora contro l’effetto serra non bastano a frenare la deriva oltre i 2 gradi: bisogna incidere di più.
Ma anche i realisti hanno argomenti solidi. Uragani, siccità, alluvioni, ondate di calore hanno sconvolto il mondo, nei sei anni trascorsi da Copenhagen, quanto basta per trasformare radicalmente l’atteggiamento di governi e opinione pubblica verso il cambiamento climatico. A Copenhagen non si riuscì a fissare un obiettivo comune di riduzione delle emissioni. A Parigi, i paesi responsabili del 90 per cento delle emissioni di Co2, compresi tutti i maggiori, si presentano con impegni precisi di riduzione entro il 2030. A Copenhagen, il vertice fallì perchè i paesi in via di sviluppo si rifiutarono di assumersi la responsabilità dei tagli alle emissioni, scaricandola interamente sui paesi ricchi. A Parigi, Cina, Messico, Brasile si presentano con la volontà dichiarata di contenere le emissioni. Gli impegni raccolti in queste settimane da quasi 150 governi saranno il pilastro centrale dell’accordo che uscirà da Parigi. L’altro sarà la solenne promessa di rivedersi entro cinque anni per una valutazione dei risultati raggiunti e dei passi ulteriori da compiere. I negoziati consentiranno anche di superare il terzo scoglio di Copenhagen: la creazione di un fondo da 100 miliardi di dollari l’anno, a carico dei paesi ricchi, per aiutare i paesi poveri ad affrontare il cambiamento climatico.
Non tutta la buona volontà dimostrata dai governi è frutto di scelte coraggiose. Per quasi metà, il contenimento delle emissioni previsto è il regalo del boom delle rinnovabili, del calo nell’uso del carbone, della maggiore efficienza energetica dell’economia. Secondo i calcoli dell’Unep, questi fattori hanno messo in tasca ai governi 5 gigatonnellate di Co2 in meno al 2030. Gli impegni politici di queste settimane hanno individuato altre 6 gigatonnellate di risparmi. Però, le 11 gigatonnellate di anidride carbonica evitate, in to- tale, sono solo la metà di quelle che servirebbero per avere buone probabilità di arrivare al 2100 sotto i 2 gradi. Parigi, insomma, si ferma a metà strada. Di fatto, da qui al 2030 le emissioni non diminuiranno, ma aumenteranno comunque. Sarebbero aumentate dell’8 per cento senza interventi. Con quello che c’è sul tavolo a Parigi aumenteranno del 5 per cento. Risultato? Un aumento della temperatura media del pianeta, al 2100, non di 2 gradi, come si sperava, ma di 2,7 gradi. Rispetto alle previsioni terroristiche di 4-5 gradi, sembra già qualcosa. Ma, attenzione. Anche i 2,7 gradi verrebbero raggiunti solo se, dopo il 2030, si continuasse a contenere le emissioni almeno allo stesso ritmo deciso a Parigi. Altrimenti, l’aumento schizzerebbe a 3,5 gradi (medi, significa anche 10 nelle regioni più calde), cioè ben al di là della soglia di pericolo. Ecco perchè è importante l’accordo appena raggiunto da François Hollande regista, come ospite, dei negoziati – con il leader cinese Xi Jinping: un impegno a rivisitare la situazione entro cinque anni.
In realtà, il vero nodo sul tavolo a Parigi è l’atteggiamento nei confronti dei combustibili fossili. In altre parole, dei potenti interessi di Big Oil e alleati. Oltre il 60 per cento delle emissioni di Co2 vengono da petrolio, gas, carbone che, però, assicurano tuttora anche l’80 per cento dell’energia che utilizza il mondo. E, da qui al 2050, la domanda di energia crescerà del 50 per cento. Ma, se vogliamo restare nei limiti dei 2 gradi, i due terzi delle riserve attuali di combustibili fossili dovrebbe restare sotto terra. Il dibattito vero su come affrontare il cambiamento climatico si riassume in queste cifre e in queste percentuali. Il documento finale di Parigi prenderà di petto questo tema? Fisserà una data – 2060, 2075 entro cui puntare esplicitamente a emissioni zero (che significa zero petrolio e gas e tutta l’energia che viene dalle fonti alternative)? Per ora, si sa già che il documento finale non comprenderà quella soluzione di compromesso che una buona parte degli stessi petrolieri aveva suggerito: la creazione di un mercato mondiale dei diritti ad emettere Co2, sul modello di quanto già esiste in Europa e si vuole creare in Cina. Il sistema, criticato da più parti, ha comunque il merito di porre un tetto controllabile e modificabile all’anidride carbonica. Ma i diplomatici sottolineano che sarebbe una discussione inutile. Obama può bloccare Keystone XL l’oleodotto che viene dal Canada, ma non può imporre ad un Congresso a maggioranza repubblicana un sistema che lo stesso Congresso ha già bocciato quattro anni fa. Se a Copenhagen fu la Cina a puntare i piedi e a far saltare l’accordo, qui a frenare un’intesa globale è l’altra metà dell’America.
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