Nella tarda serata di ieri, proprio mentre il Consiglio dei ministri stava decidendo di mantenere l’allerta massima anche per domani, le forze speciali irrompono nella Grande Place e invitano la gente ad evacuare. Un modo forse per depistare sulle altre operazioni condotte dalla polizia. La zona viene chiusa mentre decine di auto e di blindati circondano un quadrilatero di dieci strade. È il cuore della città, non lontano dai palazzi delle istituzioni europee, il luogo simbolo di Bruxelles, quello affollato normalmente dai turisti di tutto il mondo. È domenica sera. L’allarme coinvolge passanti e residenti, clienti e ristoratori. L’attenzione si concentra sul Radisson blu, il noto albergo di una catena già colpita a Bamako, in Mali, due giorni fa.
Il blocco continua. Non ci sono le condizioni per revocarlo. La guerra che adesso trascina tutta l’Europa nella spirale di morte e violenzascatenata da Daesh è simboleggiata dai blindati verdi dell’esercito, mitragliere sulla torretta, che occupano le piazze del centro storico. Dalle pattuglie dei soldati in mimetica e giubbotto antiproiettile, fucile automatico in braccio e volto coperto da passamontagna, che scrutano gli angoli dei vicoli, i tetti e le finestre. Dai cani anti bomba che tirano sul guinzaglio e abbaiano ai barboni protetti dal gelo sotto le pensiline esterne della stazione. Sono le serrande chiuse che bloccano gli accessi alla metropolitana. I grandi centri commerciali chiusi e svuotati, le insegne spente dei locali e delle discoteche. È il silenzio, cupo e profondo, di una città che si spegne. Solo il tocco di passi affrettati sui ciottoli della Grand Place ricordano che la vita continua e si interrompe.
L’assedio del weekend, con il decreto che ha imposto il coprifuoco, è stato solo l’inizio di un cambiamento che rischia di condizionare la vita e l’economia di questa città. Stamane si riprende con ritmi diversi, condizionati da un allarme che ha raggiunto il suo massimo valore. Che denuncia l’imminenza di una serie di attentati che nessuno, forse gli stessi investigatori e servizi di intelligence, riescono a circoscrivere. La metropolitana, con la sua rete di 69 fermate, resterà chiusa. Aprirla, come sperava il governo e lo stesso Consiglio nazionale della sicurezza, avrebbe dato un segnale incoraggiante di ritorno alla normalità. Ma le notizie fornite dall’intelligence e dagli uomini impegnati sul terreno in questa caccia ai fantasmi del terrorismo, hanno suggerito prudenza. Restano chiuse anche le scuole e i grandi centri commerciali. «Non siamo mica in guerra», urlava in pieno centro un uomo sulla cinquantina intabarrato nel suo cappotto. Scrutava uno dei tanti blindati che sostano agli incroci e scaricano le pattuglie di militari e di poliziotti armati. «Sì, lo siamo», gli replicava una signora passandogli vicina. «Pensa a Parigi. Potrebbero farlo anche qui».
Ed è questo il timore di chi indaga e dà la caccia ai fuggiaschi. Anche ieri è stata una giornata scandita da allarmi, con le auto della polizia che sfrecciavano tra le arterie vuote della città. Evacuato un grande comprensorio di Molines, a metà strada tra Bruxelles e Anversa, per un’auto sospetta. Evacuato il complesso Medialann di Vilvoorde dove sorge anche la sede della TV fiamminga VTM. Poi il caos a Grand Place. Solo il grande abete, addobbato a festa, resiste ad un’atmosfera che spegne ogni traccia di Natale.
L’allarme finisce per colpire anche la piccola ma importante economia del turismo e del commercio. I ristoranti del centro registrano le prime disdette, sono costretti a rinunciare ai tavoli all’aperto, rivedono gli ordinativi, riducono gli spazi. In soli due giorni, secondo l’associazione dei commercianti, la perdita è stata del 70 per cento. «Se dovesse continuare », commentava il proprietario del Roy d’Espagne, forse uno dei locali più rinomati del centro, «dovremo rivedere gli stessi programmi di Natale».
Le stragi di Parigi lasciano il segno anche a Bruxelles. Il primo ministro Charles Michel ancora ieri è tornato a spiegare il senso della scelta. «Temiamo un attacco simile a quello di Parigi nell’intero paese. Con molti individui pronti a sferrare delle offensive in punti diversi nello stesso istante». Il rischio è concreto. L’incubo dell’attentato, della serie di azioni coordinate e sincronizzate, resta sempre sospeso come una minaccia incombente.
Tornano deputati e impiegati, diplomatici e funzionari. Respirano l’atmosfera che hanno finora vissuto in TV, tramite amici e conoscenti rimasti blindati in città. Attendono silenziosi il turno per il taxi. Ascoltano, impazienti, nervosi, lo strano silenzio che ci circonda. Cercano notizie e conferme sui cellulari. A un chilometro di distanza, le squadre speciali blindano il centro. Il Radisson viene circondato. Nessuno entro nessuno esce. Un elicottero volteggia sui palazzi e i grattacieli. Si pensa a Bamako, al massacro nel Mali. Nomi e simboli della guerra che Daesh ci ha portato in casa.
Azioni militari intorno alla Grand Place, forse come diversivo. Le autorità chiedono di non twittare i dettagli. Oggi chiuse scuole e metro