Se il dissesto ambientale è democratico

Se il dissesto ambientale è democratico

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«Una delle cose da cambiare, nel nostro paese, è la pianificazione delle città e del territorio. Il paesaggio delle grandi città, dei centri minori, delle campagne, delle coste, fotografa le storture di questo mezzo secolo di democrazia imperfetta». Così scriveva Leonardo Benevolo in L’Italia da costruire venti anni fa mettendo in esplicita relazione la questione territoriale e la questione politica. Ambiente e società sono state l’uno il riflesso dell’altro, un negativo e un positivo, un unicum indivisibile e se si guarda al passato è facile vedere le corrispondenze tra la progettualità politica e i cambiamenti territoriali e, di conseguenza, anche gli incastri tra le debolezze culturali e istituzionali di un sistema Paese e il degrado del paesaggio.

Una inversione di rotta nel governo del territorio deve partire da una critica delle dinamiche sempre meno democratiche della politica in generale e delle logiche, che entro questa linea, dettano oggi lo sviluppo economico e infrastrutturale dell’Italia e le norme edilizie. Un determinato territorio è il frutto di un lungo processo di costruzione sociale, politica, culturale, ambientale; è una realtà al contempo umana e naturale complessa e stratificata su cui le piogge torrenziali e quelle figurate dei finanziamenti pubblici possono molto poco, forse nulla.

La decostruzione di un equilibrio ambientale ha tempi lunghi e radici profonde, così come un possibile risanamento richiederà decenni ma soprattutto sarà vincolato a un cambiamento della cultura di noi cittadini e delle nostre classi dirigenti.

L’emergenza c’è. Le città di Genova e Benevento, la Calabria ionica e il Cadore, giusto per citare alcuni luoghi, nell’ultimo anno ce la hanno riproposta. Ogni volta sembra che l’emergenza cresca, che si possa avere un’urgenza maggiore nell’emergenza stessa. Ma le alluvioni di Sarno e Quindici del 1998 non bastavano? L’emergenza c’è e alcuni provvedimenti possono rispondere a essa, alcuni passi in avanti possono essere fatti ma annunciare il risanamento territoriale entro il 2020 è demagogico e strumentale. È un annuncio vuoto che sostituisce e allontana gli annunci pieni.

Inizio dall’annuncio vuoto. Il Governo l’11 novembre scorso ha presentato il primo stralcio del Piano nazionale 2015–2020 per la prevenzione strutturale contro il dissesto idrogeologico e per la manutenzione ordinaria del territorio. Oltre un miliardo di euro per 69 interventi per la sicurezza nelle dieci città metropolitane e in altre città delle regioni a statuto speciale. Complessivamente per l’intero territorio nazionale è previsto, nel lustro indicato, un investimento di 9 miliardi di euro: 5 dal Fondo Sviluppo e Coesione, 2 di cofinanziamento delle regioni con fondi europei e altri 2 miliardi provenienti da fondi assegnati e non spesi negli ultimi 15 anni.
La spartizione dei primi fondi rivela una sperequazione tra Nord e Sud sorprendente: 666,31 milioni di euro al Nord, 116,2 al Centro, 280,96 al Sud; nessun intervento previsto in Calabria e circa il 50% delle somma stanziato per le aree metropolitane di Genova e Milano.

Al cospetto di questo nuovo – e velleitario nei tempi previsti – grande progetto di risanamento nazionale, le norme veramente efficaci a breve termine che andrebbero approvate per la salvaguardia del territorio vengono procrastinate e neutralizzate. In primo luogo, una riforma urbanistica, poiché l’ultima risale al 1942. Il Disegno di legge Principi in materia di politiche territoriali e trasformazione urbana proposto dall’ex Ministro Lupi veniva sottoposto a pubblica consultazione proprio la scorsa estate, in coincidenza temporale perfetta con l’elaborazione dell’intervento contro il disordine idrogeologico. L’obiettivo dichiarato della proposta Lupi era di adeguare lo sviluppo urbano e territoriale italiano alle strategie europee, ma di fatto la bozza andava in tutt’altra direzione. Non solo si salvaguardava ancora la rendita fondiaria e la proprietà immobiliare, ma l’ambiente diventava un mero supporto della cementificazione, una Direttiva Quadro Territoriale avrebbe permesso di superare gli intralci possibili dovuti ai piani paesaggistici, variazioni ai piani urbanistici avrebbero ammesso la deroga ai diritti di perequazione e compensazione. Da settembre 2014 della riforma urbanistica del Governo Renzi non si hanno notizie.

In secondo luogo servono delle leggi con applicazione immediata che impongano il consumo di suolo zero. Non c’è un’altra via di uscita e non c’è piano di bonifica, risanamento o rimboschimento che tenga. Il rapporto 2015 dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) denuncia che 55 ettari di Penisola ogni giorno vengono coperti dal cemento, quasi 7 mq al secondo, per costruire infrastrutture e centri commerciali, per il fenomeno dello sprawl urbano. Se Lombardia e Veneto contano la percentuale più alta di suolo consumato, la Liguria ha edificato il 40% del proprio territorio compreso entro i 300 metri della costa. Si noti come proprio Liguria e Lombardia si vedranno destinare la maggior parte dei fondi governativi anti-dissesto il cui investimento verrà senz’altro vanificato da un ritmo di scomparsa di suolo che non ha pari in Europa.
Emergenza e urgenza sono ormai parole vuote e demagogiche, in questo come in altri ambiti. Che cosa è veramente urgente e che cosa si può risolvere con interventi straordinari? Il grande progetto di regimentazione del territorio è figlio di una politica strabica, che fa grandi annunci e trascura il fattibile. E per tornare a Leonardo Benevolo, egli individuava tre specifiche caratteristiche del triste quadro territoriale e urbanistico italiano degli anni Novanta: l’impreparazione della classe politica ad affrontare tale aspetto; la durevolezza dei guasti operati sul territorio, quindi la lentezza e la limitazione degli interventi correttivi; il contrasto tra l’emergenza a cui si deve far fronte e la necessità di tempi lunghi per il recupero territoriale.

La sfida che la nostra fragilità ambientale ci pone è una sfida alla società tutta a ridiscutere le proprie direttive economiche, a ritrovare correttezza e onestà amministrativa, a valorizzare la partecipazione popolare. Nella consapevolezza che quanto inflitto finora all’aspetto fisico del territorio lascerà un segno indelebile.



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