Sciopero dei supermercati I lavoratori: non siamo schiavi

by redazione | 7 Novembre 2015 9:04

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ROMA. Sabato «nero» per lo shopping e il rifornimento settimanale al supermercato. Oggi riempire il carrello della spesa, comperare un vestito nuovo o cambiare divano potrebbe rivelarsi un’ardua impresa: i dipendenti della grande distribuzione e delle cooperative e i colleghi dei piccoli negozi scioperano per il mancato rinnovo del contratto, scaduto 22 mesi fa. Auchan, Ikea, Carrefour, H&M, Oviesse, Coin, Zara, le Coop — fra altri — ma pure il negozietto sotto casa sono a rischio code e disagi. Un’importante quota del settore commercio, ma non la totalità: a protestare, infatti,sono i dipendenti delle grandi catene aderenti a Federdistribuzione, a Distribuzione cooperativa (le coop “bianche” e quelle “rosse”) e i negozi Confesercenti. Non il “mondo” Confcommercio, che a giugno ha già firmato un nuovo contratto con Cgil, Cisl e Uil, prevedendo un aumento medio a regime (2018) di 85 euro lordi al mese.
È da lì che i sindacati vorrebbero partire: «Fatte salve le specificità sulle quali siano pronti a parlare nei contratti integrativi, il lavoro è lo stesso e il trattamento deve essere omogeneo — dice Maria Grazia Gabrielli, segretario generale della Filcams Cgil — Non possiamo creare disparità e alimentare un
dumping fra imprese e lavoratori che onestamente si fa fatica a comprendere». Ma quella «base Confcommercio» alla quale i sindacati si ispirano, alle grandi catene non piace. E nemmeno ai piccoli negozi della Confesercenti. Entrambi rivendicano diversità legate alle dimensioni: più grandi i primi, più piccoli i secondi. «Le regole stabilite in quel contratto non vanno bene per noi, siamo realtà industriali, creiamo linee di prodotto. Cosa abbiamo da spartire con i dettaglianti? », dicono a Federdistribuzione.
In realtà la spaccatura fra grandi e piccoli non è così netta. Lo dimostra il fatto che Conad, Crai, il Gigante e tutte le grandi catene dell’elettronica (da Trony a Mediaworld), già applicano il contratto Confcommercio. Il che fa dire al suo direttore generale Francesco Rivolta che «dalla frammentazione non possono venire che danni: le esigenze della grande distribuzione sono perfettamente contemplate dal nostro contratto cui fanno riferimento 3 milioni di lavoratori, grande distribuzione compresa ».
Che il nodo non stia negli 85 euro, ma nella maggiore flessibilità richiesta per ottenerli lo dice chiaro e tondo il presidente di Federdistribuzione Giovanni Cobolli Gigli. «Non abbiamo preclusioni a riconoscere quella cifra, purché erogata nel triennio 2016-2018 e accompagnata da forme di sostenibilità, flessibilità e produttività» spiega. «Vogliamo riprendere il negoziato per definire un accordo che rispecchi le specificità del nostro settore e tutelare in questo modo occupazione e investimenti ». Fra le principali richieste dei datori di lavoro, quelle che riguardano una maggiore mobilità fra negozi e mansioni e orari più elastici, in particolare nel fine settimana. Chi oggi lavora solo nel week end, per esempio, fa otto ore, ma solo il sabato o la domenica. La grande distribuzione vorrebbe poterne fare 4 più 4. «Ma quale flessibilità, qui vogliono la schiavitù!», dice D.F. dipendente in una grande catena del vestiario. «Vi spiego come funziona la mia giornata: io per fare sette ore e mezzo timbro alle 9 e mezzo del mattino e chiudo alle nove di sera perché la pausa pranzo dura tre ore. Tutta la fase di minor afflusso alle casse. I contratti del week end non esistono più: i nuovi assunti sono chiamati a fare tutte le domeniche, se serve. Chi lavora part — time lo fa ad orari spezzati, sta fuori tutto il giorno e non può cercare altro, nei supermercati h24 si lavora di notte. Di flessibilità ce n’è già tanta, ora vogliono renderci schiavi».
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