by redazione | 4 Novembre 2015 10:55
Lunedì il presidente Obama ha disposto che le agenzie federali non debbano considerare i precedenti penali come discriminanti nell’assunzione di impiegati statali. Il provvedimento fa parte della più recente battaglia di Obama: mitigare la portata e gli effetti sociali del mastodontico sistema criminale penale del paese che incarcera 2,3 milioni di cittadini, la più alta percentuale al mondo. Fra le conseguenze della detenzione sistematica c’è la privazione dei diritti civili, compreso il diritto al voto degli ex detenuti. Un precedente penale grave squalifica anche automaticamente dal servizio militare e fino ad oggi dall’assunzione come impiegato federale.
Il complesso penale-industriale è una delle moderne anomalie americane, come il sistema sanitario pubblico disastrosamente inefficiente ed iniquo o la cultura e diffusione delle armi da fuoco le cui conseguenze sono tristemente note. Obama ha investito quasi tutto il proprio iniziale capitale politico nel tentativo di riformare la sanità. Sulle armi, malgrado una agghiacciante catena di stragi, non è riuscito a sbloccare la potente opposizione della lobby delle armi (e di una diffusa cultura nazionale). La riforma del sistema penale di massa potrebbe essere una delle ultime spinte riformiste della sua amministrazione. La «deriva punitiva» rappresenta un fenomeno relativamente recente pur nell’ambito di un sistema giudiziario notoriamente severo. Il numero di detenuti in America è praticamente quadruplicato nei quarant’anni dall’era reaganiana. Grazie alla retorica sulla sicurezza e l’ordine pubblico del movimento conservatore si sono diffuse leggi che impongono severissime condanne ai recidivi.
Il modello è stata la famigerata «three strikes» che in California obbliga i giudici ad imporre condanne di oltre venti anni al terzo reato anche se minore. Parallelamente la war on drugs, la «tolleranza zero» nella futile guerra alla droga varata da Nixon, ha avuto l’effetto di riempire le galere di milioni di individui condannati per crimini non violenti legati all’uso e lo spaccio di stupefacenti; la criminalizzazione cioè dell’economia del «proletariato etnico». La guerra alla droga, che non ha intaccato i grandi conglomerati del traffico, si è tradotta così soprattutto in guerra ai poveri e alle minoranze. È paradigmatica in questo senso la penalizzazione della cocaina che prevede pene assai più severe per lo spaccio di crack di uso prevalente fra neri che per la coca in polvere, preferita da bianchi facoltosi.
Un sistema penale punitivo che non prevede alcuna vera riabilitazione, ma anzi si assicura di ostacolare il reinserimento degli ex detenuti imponendo le squalifiche al voto e all’impiego. Dato che il 40% dei detenuti sono afro americani (che rappresentano solo il 13% della popolazione nazionale) il sistema assicura la massiccia sottrazione di diritti civili dalle minoranze e rappresenta un meccanismo di controllo sociale che spesso inizia nelle scuole militarizzate e pattugliate dalle forze dell’ordine. A fronte di un fenomeno ormai insostenibile, Obama, attraverso il suo primo attorney general, Eric Holder, ha cominciato ad articolare la critica a un sistema razzista che sostiene per di più un fiorente settore di prigioni private che si aggiudicano lucrosi appalti statali. Holder è stato il primo ministro di giustizia a denunciare «un utilizzo eccessivo della carcerazione» come rimedio sociale, insostenibile in termini economici oltreché «umani e morali».
Una fondamentale inversione di tendenza rispetto al giustizialismo e l’omertà politica che per quarant’anni hanno riempito le galere americane. Holder e Obama, che a luglio è stato il primo presidente in carica a visitare un penitenziario federale, hanno attaccato il «circolo vizioso di povertà, criminalizzazione e incarcerazione che intrappola troppi americani».
Dopo una prima mandata di amnistie per detenuti che scontavano lunghe pene per stupefacenti, il provvedimento contro la squalifica degli ex detenuti rappresenta l’ultimo passo di un tentativo di riforma che comincia a trovare consensi anche dentro l’ipertrofico apparato di giustizia e che potrebbe rappresentare una delle ultime significative battaglie politiche dell’era Obama.
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