L’infinita guerra
Tommaso Di Francesco, il manifesto
L’abbattimento per «sconfinamento» del jet russo impegnato a bombardare l’Isis è un deliberato agguato da parte del Sultano Erdogan. Non solo contro lo «zar» Putin, ma contro i risultati del vertice di Antalya, il G20 dei Grandi del pianeta nel quale, solo dieci giorni fa, hanno fatto irruzione gli attentati di Parigi dell’Isis. Quel vertice, oltre a suggellare una sorta di patto tra Putin e Obama, con l’approvazione esplicita dell’intervento russo in Siria — pagato con la strage dell’airbus di Mosca — realizzava un’altra ambiguità. Lo sdoganamento di Reyyep Erdogan, tornato interlocutore occidentale fondamentale dopo la vittoria nelle elezioni turche anticipite, per l’impossibilità dell’Akp, il partito islamista del premier, di avere la maggioranza in parlamento.
Vista l’affermazione per la prima volta dell’Hdp, il partito della sinistra kurda e turca con ben il 13% dei consensi.
Un paese alla frontiera di una guerra aizzata dallo stesso governo turco, anche in chiave anti-kurda, è stato investito da una strategia della tensione con il primo di una litania di attentati sanguinosi: una bomba contro la sinistra kurda e turca che ha fatto cento vittime. Poi di nuovo elezioni blindate, denunciate come «irregolari» anche dall’Osce, che hanno restituito la maggioranza al Sultano, l’islamista baluardo della Nato, ridimensionando l’alternativa politica rappresentata da Demirtas. Che solo tre giorni fa è stato oggetto di un attentato.
L’intervento russo è giunto a togliere le castagne dal fuoco ad un Occidente che dal novembre 2011 aveva lavorato per fare a Damasco quello che gli era riuscito a Tripoli con Gheddafi, vale a dire per abbattere nel sangue Assad attraverso una coalizione composita di «Amici della Sira», con dentro tutti i paesi europei, gli Stati uniti e le petromonarchie del Golfo. Tutti impegnati a sostenere l’intera opposizione da subito armata, l’Els, esercito libero siriano, ma anche le formazioni d’ispirazione jihadista, dalla forte e numerosa Ahra Al Sham, alla qaedista Al-Nusra fino alle milizie dell’Isis.
La Turchia ha avuto l’affidamento, dagli Usa e dalla Nato, della formazione, dell’addestramento e del sostegno diretto di tutti questi gruppi armati. Dopo tre anni e mezzo l’operazione è fallita, con 250mila morti sul campo e milioni e milioni di profughi: i testimoni del nostro fallimento arrivati in centinaia di migliaia nelle città europee.
Poi gli attentati di Parigi. E la solitudine — strategica — di Hollande che corre per schierare più alleati possibili: «Siamo in guerra, aiutateci». Un Hollande che trova il sostegno militare di Angela Merkel solo per il Mali. Ma faticherà non poco a ricucire con Mosca per avviare quello «stato maggiore unificato» con l’unico vero sodale nella guerra contro l’Isis in Siria: la diffidenza, nonostante la rincorsa del presidente francese, regna sovrana. Tanto che si riapre lo scontro sull’Ucraina e le forniture di gas russo all’Europa. L’agguato di Ankara al jet russo illumina la scena di una crisi regionale che, con gli interventi armati di una coalizione a pezzi non va risistemandosi ma scivola verso un’ulteriore contrapposizione violenta.
Mentre è chiaro che la Turchia che vuole l’abbattimento di Assad subito, considera una parte della Siria, a cominciare dall’area kurda del Rojava, praticamente sua e sotto tiro di una rischiosa no-fly zone. Mentre i raid Usa nell’immensa area dell’Iraq conquistata dallo Stato islamico, con il soccorso alla leadership impresentabile del Kurdistan iracheno, aprono la voragine della definitiva spartizione dell’Iraq. Preparando il nuovo confronto armato che già è evidente tra kurdi iracheni, sciiti e sunnniti. Del resto non era la guerra infinita quella che volevano in Medio Oriente i neocon statunitensi quando è partita nel 2003 la guerra a tutti i costi contro l’Iraq?
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