L’imam, il rabbino e la Marsigliese: “La paura non prevarrà”

by redazione | 16 Novembre 2015 10:39

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PARIGI. L’IMAM E IL rabbino si sono chinati insieme davanti al Bataclan. È stato importante, ed è importante che gli imam convenuti abbiano cantato la Marsigliese, che uno degli imam convenuti abbia spiegato: «Sono francese musulmano, e penso di essere più toccato di altri», e abbia aggiunto che «la gran parte degli imam francesi è pacifica»: la gran parte non sono tutti. Credo che ci sia un equivoco di fondo nella distinzione che continuiamo a formulare fra musulmani fanatici e moderati. E non perché i musulmani si somiglino tutti, che è un oltraggio all’intelligenza e all’evidenza. Il totalitarismo islamista, pur diviso in bande mutuamente accanite, si mobilita e organizza fino a costituirsi in esercito e stato multinazionale, come nel sedicente califfato, e offre la sua bandiera al rancore e alla frustrazione di una vasta parte del pianeta. Al contrario, il cosiddetto islam moderato non ha istituzioni né persone a rappresentarlo adeguatamente. Sono innumerevoli i musulmani moderati, ma è più giusto chiamarli ricchi di umanità. E sono così spesso vittime di quegli invasati. Ma loro sono persone e famiglie, gli altri sono un’armata conquistatrice. Sostenere i musulmani che vogliono bene all’umanità è importante, ma è decisivo battere gli altri.
Dunque sono andato anch’io a cercare il Bataclan. Non c’è bisogno di chiedere informazioni, basta lasciarsi portare dalla folla. Sembra il viavai di una domenica qualunque nel centro di Parigi, ma è una specie di corteo di fatto che va da una stazione all’altra del calvario di venerdì notte. Uso termini cristiani in un’accezione comune, non certo perché ignori che quegli spasmodici credenti hanno assassinato all’ingrosso, di ogni paese e di ogni religione d’origine, islam compreso. Si crede di aver guardato e letto tutto, e però si resta sbigottiti di fronte alla moltiplicazione dei luoghi in cui hanno ammazzato e ferito, ciascuno mutato in un memoriale di fiori e candele e messaggi, con la gente che gli si accalca attorno, qualcuno prega, tutti fotografano, e poi continuano verso il prossimo altare da marciapiede. Fa ricordare le lente, estenuanti processioni dei Sepolcri dei nostri venerdì di passione. (Nel punto più fitto, accanto alle transenne che isolano il boulevard davanti al Bataclan, vuole spiccare una vistosa composizione di rose rosse col nome di Abdullah Ocalan). La stazione di arrivo è place de la République, quando ci arrivo è piena di migliaia, soprattutto giovani. Stanno raccolti in diversi cerchi, fanno musica e cantano, alzano pagine scritte a mano in cui le parole più ricorrenti sono Amour e Love, e la frase che rivendica: “Non abbiamo paura”. Lo si legge grande anche sul piedistallo del monumento. Nella piazza un gruppetto di ragazze solleva il cartello con la scritta “Free hugs”, e scambia i suoi abbracci gratis. Sono belli, questi ragazzi, pieni di luce, direste. Grazie a loro tutto prende un’aria di festa, commovente: che cosa può contraddire più radicalmente l’odio e la ferocia degli assassini di un’amicizia espansiva fra sconosciuti? Perché allora provo una sensazione tormentosa di impazienza e di vera paura? Lascio la République e mi avvio a Notre Dame, perché fra poco sarà celebrata dal cardinale arcivescovo André Vingt-Trois la messa solenne per le vittime e per i loro cari. Nel comunicato che l’annunciava, il cardinale informava personalmente che la messa sarebbe stata trasmessa dalla televisione cattolica Kto: una precauzione per l’eventualità che ancora alle 18,30 della domenica la sicurezza dei movimenti non fosse garantita. Ma a mezz’ora dall’inizio la cattedrale e l’intera piazza sono già gremite e transennate, e devo rinunciare e tornare indietro. Anche le strade adiacenti sono piene di persone che cercano qualche varco attraverso cui entrare. Dei ragazzi corrono, e basta la loro corsa ad allarmare la folla, che si ferma e si muove di qua e di là interdetta. Torno alla République, in tempo per gli strascichi di un panico che si è impadronito della folla che poco fa cantava e danzava e si abbracciava e inalberava il proprio coraggio. Uno sbandamento clamoroso e amarissimo, e peraltro facilissimo da capire. Forse davvero qualche scemo aveva fatto esplodere dei petardi, più probabilmente no, non ce n’era bisogno. Si grida, ci si calpesta, la polizia non può che urlare di evacuare il terreno. Viene travolto il tappeto di candeline, prendono fuoco le lettere e i fiori. Lo ridico: che cosa c’è di più comprensibile e perfino inevitabile che un simile tracollo in una folla che ha negli occhi il mattatoio di Bataclan? Quale maramaldo potrebbe infierire su quel cedimento? Il panico ha rivelato la fatica di una giornata in cui tante migliaia di persone, i ragazzi degli abbracci gratuiti e le fedeli del sagrato di Notre Dame, anche quello bruscamente evacuato, avevano voluto ostentare coraggio e amore del prossimo e della pace. Passato il panico, sono tornati in pochi nella gran piazza. C’era un peso da smaltire. La sensazione che non bisogna scrivere sui monumenti: “Noi non abbiamo paura”. Gli uomini neri incollati agli schermi a Raqqa e a Palmira hanno visto. Gli slogan devono essere sbrigativi, ma se ne deve trovare uno che riesca a dire: “Abbiamo paura, ma non prevarrete, perché siete disumani, e noi umani”.
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