Liliana Segre. Il coraggio di dire la verità ai ragazzi

Liliana Segre. Il coraggio di dire la verità ai ragazzi

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«Il compito è difficile. Davanti al mistero di questo odio succede di non sapere cosa fare». Di fronte alle tragedie non bisogna mai girarsi dall’altra parte, come successe con la Shoah
«Bisogna avere il coraggio di spiegare ai nostri ragazzi cosa è accaduto a Parigi. Dicendo la verità e senza ripararli dal dolore e dal pericolo. Perché le nuove generazioni qui in Italia sono state troppo protette e isolate dal concetto di sofferenza, che invece fa parte reale, concreta della vita di tutti noi… Una responsabilità che hanno sia i genitori che i professori».
Liliana Segre ha un raro dono: quello di affrontare il racconto di quel «dolore indicibile» che fu la Shoah, con la semplice pacatezza che le riconoscono i tanti ragazzi delle scuole in cui lei ha narrato la sua tragedia di internata quattordicenne nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau con la matricola 75190 stampata sull’avambraccio, dopo essere partita il 30 gennaio 1944 dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano. Liliana Segre è tra i 25 sopravvissuti dei 776 bambini di età inferiore ai 14 anni deportati ad Auschwitz. Dagli anni Novanta, dopo un lungo tempo di silenzio e solo dopo essere diventata nonna, ha proposto la sua testimonianza in centinaia di scuole, e continua a farlo. E oggi riflette su quale sia il modo più adatto per raccontare ai ragazzi un lutto collettivo contemporaneo, quello di Parigi.
Liliana Segre, lei da anni accetta inviti nelle scuole e quindi conosce bene la mentalità dei ragazzi, le loro domande, i loro dubbi. Oggi riaprono le scuole. Come raccontare il massacro di Parigi?
«Io non mi sono mai trovata ad affrontare questioni contemporanee. Ho sempre raccontato la mia storia, riscontrando spesso quanto i ragazzi siano disabituati a comprendere cosa sia accaduto con la Shoah nel Novecento, e che oggi si ripropone sotto altre forme».
Quale messaggio tenta di comunicare agli studenti?
«Che di fronte a simili tragedie occorre trovare la forza di andare avanti partendo prima di tutto da se stessi. E che non bisogna mai girare la faccia dall’altra parte, come capitò a noi ebrei mentre venivamo deportati. Subito dopo raccomando di non odiare mai. Perché l’odio genera altro odio. Ultima cosa. Mai generalizzare».
Quindi, in queste ore….
«Mai generalizzare sull’Islam. Assurdo pensare che chi è fedele di quella religione è automaticamente un terrorista. Noi ebrei abbiamo vissuto sulla nostra pelle quali possano essere gli effetti di una generalizzazione. È stata la chiave dell’antisemitismo. Perciò oggi bisogna trovare le parole giuste per spiegare, per distinguere».
I professori si trovano oggi di fronte a un dilemma: come “insegnare” ai ragazzi i fatti di Parigi?
«Dire la verità. Spiegare i fatti. Raccontarli senza troppe edulcorazioni. Le nuove generazioni sono completamente disabituate al dolore, al concetto stesso di tragedia. Sono tenute troppo al riparo, dai professori e dai genitori».
Forse come reazione dei padri e dei nonni a ciò che è accaduto nel Novecento in Europa.
«È probabile che sia così. Ma c’è un eccesso di protezione che non aiuta i giovani a capire la realtà, quindi ad affrontarla un domani. Molte scuole organizzano viaggi a Dachau per spiegare cosa sia stato un campo di concentramento. La mattina le scolaresche vanno lì, ascoltano le guide, magari stanno attenti. E poi la sera… tutti in birreria».
Come in una qualsiasi gita scolastica…
«Ecco, quando io sento dire che si organizza una “gita scolastica” a Dachau mi indigno. Ma quale gita? Semmai è una lezione di Storia. O un pellegrinaggio. E poi, trovo insopportabile questa abitudine di “consolare” i giovani la sera dopo aver toccato con mano la follia dello sterminio nazista. Molto meglio non partire, non andare. La vita non funziona così. Dopo i dolori non arrivano le caramelle di consolazione, come si fa con i ragazzi di oggi».
Lei ha fiducia nella capacità dei professori italiani di spiegare cosa sia accaduto a Parigi venerdì notte?
«Esistono due categorie di professori. Quelli che avvertono una autentica missione per un lavoro importante. E gli altri, impiegati statali che più banalmente insegnano. Ai primi tocca il compito di riflettere e di aiutare i ragazzi a farlo. Ricorrendo alla verità, senza spaventarli inutilmente e spingendoli ad andare avanti, a riprendersi in mano la vita. Partendo, come ho già detto prima, da se stessi. Perché è lì il motore essenziale: la forza va trovata dentro di noi, sempre e comunque. E nelle scuole si dovrà dire che la strada non è certo chiudersi in casa e lasciare fuori il mondo».
Compito difficile, bisogna ammetterlo.
«Certamente. Basta leggere proprio sul Corriere tante illustri opinioni per scoprire che non è necessario essere giovani per non sapere cosa fare di fronte al mistero di tutto questo odio».
Perché tutto questo odio, dice lei, in fondo è un mistero
«Sì, in fondo è un mistero. Che spero abbia alla fine una soluzione» .
Paolo Conti


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