DICIAMO: «Sono Parigi» e non diciamo mai «Sono Peshawar» o «Sono Mogadiscio». È utile che ne discutiamo, senza fare confusione. La reazione alla violenza, la stessa solidarietà con le vittime, sono una cosa, il lutto è un’altra cosa. Il lutto ci riguarda personalmente, e distingue fra le perdite. Fra le ossa che ogni giorno in terra e in mare semina morte. Il lutto è di una persona, di una famiglia, di una comunità. Più spesso è prossimo nel senso della vicinanza, ma può unirci anche a una gran distanza. Quando siamo colpiti dal lutto, diciamo: «È come se avessi perduto una parte di me». Siamo umani, ma siamo fatti da ciò che nel tempo e nello spazio è diventato parte di noi, cui abbiamo appartenuto e apparteniamo. Appartengo a Parigi più di quanto appartenga a Beirut. Il mio amico Gad Lerner, che è nato a Beirut e ci torna in corpo e anima, non scriverebbe la stessa frase. Il lutto è così profondamente nostro che ci accomuna fino a farci uscire da noi, a farci riconoscere e abbracciare, non solo coi nostri famigliari, ma con gli sconosciuti che lo condividono, come avviene quando i passanti si prendono per mano durante il minuto di silenzio. E allo stesso tempo siamo intimamente gelosi del nostro lutto. È una faccenda nostra: mia e di Parigi. Mia e di Beirut. Di Ankara e mia. Del Bardo e mia. A ciascuno il suo lutto.
A ciascuno, anche, la sua gioia. C’è una disparità anche nell’amore. L’amore non è la giustizia. La giustizia dovrebbe essere distribuita in dose uguale per tutti. Ma il giusto maestro del vangelo, così capace di amore, ha le sue predilezioni scoperte, e insegna che il tuo prossimo è colui in cui ti imbatti e ha bisogno del tuo soccorso, hai bisogno del suo soccorso.
La dialettica di vicino e lontano è complicata. Vengono rapite 247 nigeriane dalle canaglie di Boko Haram, e mezzo mondo dice: «Ridateci le nostre ragazze». La Nigeria è lontana e le ragazze sono nere. Qualcuno obietterà che è perché sono cristiane, e perché sono ragazze e studentesse. C’è sempre una vittima più infelice e più ignorata, se si voglia a ogni costo fare una classifica. Nel Sud Sudan vengono rapite e massacrate bambine e donne a migliaia, e Michelle Obama non si mette un nastrino, come per le ragazze nigeriane. La comparazione è una buona maestra, purché non se ne abusi. Una buona norma è di sincerarsi su chi deplora il risalto dato a una sofferenza in nome di un’altra trascurata: lui, o lei, si è dedicato a quell’altra sofferenza? A chi vi rinfacci di essere troppo commosso per il destino della pastora Diesel mentre i cuccioli umani della terra muoiono di fame, chiedete, con cortesia, che cosa faccia lui di solito per i bambini affamati: caso mai, avrete una buona occasione per dargli una mano, senza dovervi sbarazzare del vostro bassotto.
Sulla scia di questi confronti, su Facebook qualcuno ha contrapposto l’indifferenza per 146 universitari kenyoti trucidati a Garissa dagli assassini somali di al Shabab al lutto per Parigi. Nella piena dell’indignazione, hanno preso quell’eccidio per appena avvenuto, invece che nello scorso aprile. A me toccò scriverne qui: i loro coetanei di Zagabria e di Caracas e di non so quali altri posti del mondo si sdraiarono poi a fare il morto, e nel parco al centro di Nairobi si radunarono ad accendere candeline e deporre messaggi.
Il fatto è che non abbiamo “due pesi e due misure”: abbiamo innumerevoli pesi e misure, tante quante le sventure del mondo e la nostra capacità di parteciparne. È vero che la disparità delle reazioni mostra che non tutte le morti sono uguali: ma questo è solo il complemento del fatto che non tutte le vite sono uguali, e anzi sono così diseguali da far pensare che il genere umano sia un modo di dire, e sia composto di specie viventi e morenti abissalmente distanti. Per questo abbiamo bisogno di leggi e istituzioni: perché ci si occupi secondo umanità anche di quelli che non succede a noi di amare, o di incontrare come il nostro prossimo. Come i “250 mila morti in Siria”. Non possiamo volergli bene, il bene vive di dettaglio, non di ingrosso. Possiamo voler bene a qualcuno di loro, perché l’abbiamo visto, sentito piangere o gridare — o tacere. Ma di tutti dovevamo volere la salvezza, ed esigere che qualcuno ne avesse la responsabilità in nome di tutti noi. L’Onu non fu immaginata per i minuti di silenzio.
C’è Parigi, e ci fu il piccolo Aylan. Perfino con lui si lamentò un privilegio! Successe anche a me di provare un sentimento di pena per il fratellino Galip. Di lui non avemmo una fotografia. Forse aveva cercato di afferrare Aylan, come fa un fratello maggiore anche se non ha nemmeno cinque anni, prima di essere travolto e portato dove nessuno l’avrebbe più visto, dei milioni che guardarono Aylan. Ma ci sono luoghi e persone che diventano il cuore del mondo: Aylan, Parigi. Valgono per tutti.