ISTANBUL . È il trionfo del Sultano. La sconfitta di laici e curdi. L’Anatolia si veste a festa con il colore bianco del partito conservatore islamico. Ma il Kurdistan si infiamma invece, e scende in piazza pieno di rabbia, mettendo le barricate e incendiando le strade polverose di Diyarbakir già piene di profughi siriani.
Nella grande città che si considera la capitale curda del Sud Est, dove il voto al partito di riferimento sfiora il 70 per cento dei consensi, la grande paura va in scena alle sette di sera. Avviene quando le tv che srotolano i dati del voto, mostrano il Partito democratico del popolo scendere sotto la barriera del 10 per cento. Vuol dire: non entrare in Parlamento. E gli 80 deputati eletti appena il 7 giugno scorso, nella tornata elettorale che aveva visto l’inattesa vittoria di una compagine che per la prima volta faceva il suo ingresso nell’Assemblea di Ankara, parevano di colpo polverizzati.
La gente si è così ritrovata davanti alla sede locale del partito. Decine di manifestanti hanno lanciato sassi contro gli agenti, e bloccato una delle strade principali. Le forze di sicurezza turche hanno risposto con gas lacrimogeni, cercando di disperdere i manifestanti, che si allontanavano solo quando la CnnTurk e la Ntv davano risultati più aggiornati, e la formazione curda tornava sopra il 10 per cento, sommando qualche decimale che faceva respirare tutto il Kurdistan. Non tanto da far sedare definitivamente tutta la piazza, ma abbastanza per portare una notte di riflessione. E magari ripensare anche sui possibili errori del partito.
Alla tv locale comparivano i due co-presidenti: Selahattin Demirtas, l’avvocato difensore dei diritti umani, divenuto il nemico principale del Presidente Tayyip Erdogan che l’ha avversato per il successo di giugno, e la giovane e tostissima combattente per la pace Figen Yuksekdag. Hanno facce scure, la botta è forte. Fanno solo una dichiarazione, senza domande dalla stampa. Dice lui: «L’esito delle elezioni è il frutto della deliberata politica di polarizzazione voluta dal Capo dello Stato. Ora analizzeremo il calo dei voti rispetto alla consultazione dello scorso giugno. In ogni caso, il fatto di essere riusciti a superare la soglia del 10 per cento, portando nuovamente deputati in Parlamento costituisce per noi un successo ». A Diyarbakir il voto andato al Partito democratico del popolo è vasto. Una percentuale altissima. Però i curdi perdono nel resto del Paese, e l’emorragia è forte: dal 13,1 per cento del 7 giugno, al 10,7% di oggi. Sono ben 1 milione mezzo di voti in meno. Tradotto in deputati, significa 59 parlamentari contro gli 80 di prima. Soprattutto, la gente si chiede: come è riuscito Tayyip Erdogan a trovarsi nelle urne, nel giro di soli 5 mesi, 3 milioni e mezzo di voti in più. Balzando, è il caso di dirlo, dal 40,8 al 49,4.
Qualcuno accenna la parola brogli. Ma non ci sono prove. Piuttosto, si analizzano le responsabilità interne. Quanto hanno contato le frizioni e le divisioni tra il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, cioè i guerriglieri impegnati nel rinnovato conflitto sulle montagne curde contro l’esercito, e i funzionari del Partito democratico del popolo concentrati sulla politica ad Ankara? Quanto hanno influenzato le uccisioni di militari turchi, in risposta agli attacchi ricevuti, per gli elettori spaventati delle grandi città dell’Ovest turco, a Istanbul come a Smirne? E quanto hanno influito gli attentati nelle zone curde, fino all’esplosione della bomba kamikaze alla stazione di Ankara (più di cento morti) nel compattare la richiesta di stabilità invocata da Erdogan?
Nella notte curda le domande non trovano risposta ancora. Selahattin Demirtas, da astro nascente della politica turca, e bastone nelle ruote del Sultano, viene ridimensionato dopo avere ricevuto attacchi continui in campagna elettorale. Ci sarà tempo per rimettere i curdi in pista, anche se in Parlamento ricominceranno a dire la loro. Ma intanto la batosta è cocente, e la sconfitta porterà consiglio.