by redazione | 4 Novembre 2015 9:36
Ad aprile in Francia è nata una nuova «città». La chiamano la « Jungle » (la giungla) di Calais. Si trova a nord-est del Paese, non lontano da Inghilterra e Belgio. Si sviluppa in un terreno paludoso grande un chilometro per cinquecento metri vicino al mare. Alla sua fondazione accoglieva 2000 abitanti provenienti da molti Paesi d’Europa, Asia e Africa. Questa colonia è diventata in pochi mesi il terzo agglomerato più popolato del comune di Calais. Al 24 ottobre le autorità francesi stimano che la Jungle ospiterebbe 8000 abitanti.
«Gli abitanti della Jungle vengono da paesi in conflitto o sono fuggiti da un sistema economico asfissiante ed ingiusto», spiega Assan, che viene dal Darfur, dove studiava lingue. Adesso spera di poter riprendere i suoi studi a Londra o Manchester al più presto. Gani è kosovaro. Vive qui da quattro mesi. È molto spigliato e si regge su due stampelle. «Mi sono rotto la gamba destra cadendo dal treno che collega Parigi a Londra», dice in un francese perfetto. «So che è pericoloso ma appena potrò ci riproverò perché in Kosovo non c’è lavoro e poi mi piace tanto l’Inghilterra» ribadisce con orgoglio dopo averci dato il suo biglietto da visita, dove l’indirizzo che appare è Prishtine Hotel Jungle.
La Jungle è il campo profughi voluto dal sindaco Natacha Bouchart nella periferia di Calais lo scorso aprile. In questo modo si è voluto concentrare tutti i migranti in fuga da fame, guerre e disequilibri economici in un unico terreno fino ad allora inutilizzato e abbastanza lontano dal centro abitato e turistico. Inutilizzato per due motivi: è una zona d’interesse ecologico e faunistico di tipo 1 (Znieff), cioè sarebbe un’area protetta intoccabile; al tempo stesso la Jungle si trova in una zona Seveso, cioè considerata a rischio per la presenza di due industrie altamente tossiche e pericolose quali la Interor e la Synthexim. Da aprile i migranti non hanno il diritto di accamparsi altrove. «Lì non danno più fastidio a nessuno e adesso la città è più pulita» dice un ristoratore che lavora nella piazza principale di Calais.
La città non sembra più la stessa. Oramai è quasi impossibile imbattersi in un migrante e sono state cancellate tutte le tracce del loro passaggio. Tuttavia continuano a lamentarsi gli operatori turistici della zona, secondo i quali la presenza dei migranti in città avrebbe fatto perdere loro molti clienti. Eppure a partire da aprile il ministro degli Interni Cazeneuve ha incrementato quasi ogni mese la presenza delle forze dell’ordine a presidio dell’Eurotunnel e del porto. Molto spesso questi poliziotti vengono da regioni molto lontane (Alsazia ed Ile de France) e passano le loro trasferte pernottando negli hotel della zona. Inoltre gli albergatori che si lamentano dimenticano che numerose famiglie più agiate degli altri migranti (soprattutto siriane) preferiscono pernottare in hotel piuttosto che nella Jungle pagando in nero grazie alla complicità degli albergatori stessi.
Per arrivare alla Jungle bisogna superare il porto, entrare nella zona industriale e continuare finché sei camionette delle Crs (corpo di polizia anti-sommossa francese) annunciano l’ingresso ovest. Da qui seguiamo Muhamed, un giovane iracheno fuggito dall’avanzata di Daesh che è contentissimo di poter parlare con qualcuno. In mano ha «The Secret Adversary», un romanzo di Agatha Christie. L’ha preso in una delle numerose biblioteche della Jungle: «così potrò migliorare il mio inglese». Ci chiede di seguirlo fino alla sua tenda, nella zona degli iracheni. Gli abitanti della Jungle si sono raggruppati per Paese di provenienza o per etnia. Il «quartiere» irakeno è abitato prevalentemente da curdi. Famiglie intere composte da nonni, genitori e bimbi di pochi anni. I più fortunati, coloro che hanno ancora un po’ di soldi e quanti si sono stabiliti da più di un mese vivono in delle baracche fatti di legno, plastica e stoffa. Tutti gli altri si devono accontentare di una tenda che in altri contesti farebbe la gioia dei campeggiatori e degli scout.
Muhamed, muratore di 44 anni, viene da un paese vicino Mosul. Ha portato tutta la famiglia a Calais. «Vorrei raggiungere mio fratello in Inghilterra per poter ricominciare a vivere tranquillo e per dare un futuro ai miei figli». Sorseggia un thè in attesa di essere chiamato dal «passeur» (lo scafista) per provare a raggiungere l’Inghilterra nascondendosi in una macchina o in un camion che si imbarcherà in uno dei numerosi ferry diretti alle bianche scogliere di Dover.
La Jungle è attraversata da due strade principali nord-sud e ovest-est. Attorno a queste vie principali gli afghani hanno aperto tanti ristoranti e qualche negozio. Il momento della cena è l’occasione per conoscere Ahmed, cuoco cinquantenne nato a Kabul e da tre anni in Italia. Dopo aver ottenuto i documenti ha lavorato per tre anni nella ristorazione a Catania. «Quattro mesi fa sono stato licenziato e sono stato costretto a partire per cercare lavoro in Inghilterra» ci racconta in un italiano perfetto con un accento siciliano. «Poi sono arrivato qui a Calais. Ho visto le condizioni in cui viveva la gente e ho deciso di aprire un ristorante. Penso di rimanere otto o nove mesi e poi tornerò a Catania». Da fuori il locale è anonimo. La struttura improvvisata in lamiera, cartone e assi di legno cela al suo interno un unico ambiente ben riscaldato ed illuminato grazie ad un generatore. Sulla destra si trova la cucina ed una bacheca con il menu: riso, carne, verdure, patatine fritte, acqua, birra, thè e caffè sono sempre disponibili. Un pasto completo costa mediamente tre euro a persona. Mentre mangiamo un buonissimo riso accompagnato da pollo arrosto ne approfittiamo per osservare le pareti ricoperte da stoffe e tessuti dai colori e motivi più disparati. Per strada è possibile comprare beni alimentari e di elettronica fino a tardi a prezzi non molto differenti da quelli disponibili in città.
È sabato sera. Le strade ed i ristoranti sono pieni di giovani che hanno voglia di divertirsi e di scaricarsi un po’ dallo stress. Esiste addirittura un teatro, da dove esce il suono elegante di lontane note iraniane. «Tenaistellin! Demen andaru?» Non trovando ristoranti etiopi, proviamo a chiedere in amarico a tre ragazzi di Addis Abeba dove possiamo gustare dell’autentico ‘ndoro wat. Dopo averli seguiti per qualche minuto ci ritroviamo in un night club etiope ed eritreo. Gli etiopi hanno preferito concentrarsi su questo genere di esercizi commerciali. E infatti nella loro zona è pieno di discoteche dove è possibile trovare, oltre alla musica, alcol, droghe e prostitute.
L’indomani mattina i cristiani etiopi ed eritrei festeggiano la ricorrenza dell’arrivo del cristianesimo nel Corno d’Africa e ci invitano alla Messa nella chiesa principale, che dura dalle 8 di mattina fino alle 12, terminandosi con un pranzo comunitario. La chiesa è semplice ma elegante e funzionale come gli altri numerosi edifici di culto della Jungle come le chiese protestanti e le moschee.
«Ma in tutto questo che fa lo Stato?», si chiede Yoann, giovane studente che è venuto da Parigi per vedere con i propri occhi la situazione. Il ministro dell’interno Cazeneuve ha annunciato che sarà incrementata la presenza delle forze dell’ordine. Inoltre verranno distribuite delle «tende riscaldate» ed aumenteranno i posti letto per donne e bambini al centro d’accoglienza diurno Jules Ferry.
Da aprile ogni giorno centinaia di volontari provenienti da Inghilterra, Francia ed altri Paesi si mettono a completa disposizione per provare a migliorare le condizioni di vita dei residenti della Jungle. Insieme alle grandi associazioni ed Ong, tutte presenti, da Medici Senza Frontiere alla Caritas, è una vera e propria gara di solidarietà tra famiglie che portano vestiti, cibo, materiale da costruzione, professori che vengono ad insegnare il francese, addirittura bimbi che vengono a condividere i loro giocattoli… François studia lingue a Lille e viene ogni fine settimana per organizzare dei corsi di lingua nella scuola che si trova vicino al cinema. «Un giorno una mia amica mi ha invitato a conoscere dei suoi amici sudanesi che vivevano qui e da allora non me ne sono più andata», racconta Marguerite, che il 24 sera ha organizzato la proiezione del film di Chaplin «Tempi moderni» che ha riscosso un grande successo. Ad ogni ora del giorno e della notte arrivano furgoni carichi di cibo e vestiti. Spesso vengono distribuiti senza alcuna logica con lunghe code che causano momenti di tensione e talvolta di violenza. Manca una gestione dei rifiuti, che spesso vengono bruciati causando nubi nere di diossina. «Manca una gestione centrale di tutti gli aiuti che la società civile vorrebbe apportare a questi 8000 disperati», commenta frustrato, un pensionato di Bruxelles che vorrebbe distribuire vestiti e sapone ma non ha idea di come muoversi e a chi rivolgersi.
È sabato sera, prima di andare in tenda seguiamo la luce di una lampada all’interno della chiesa etiope. Un uomo è chino con un pennello su una tela dove cominciano a delinearsi i tratti di un angelo che infilza un demone con una lancia. «Sono un artista. Sono un pittore eritreo. Sono io che decoro la chiesa». Così si introduce Paulos. Come lui altre 8000 persone, altre 8000 storie, dimenticate dietro i numeri e le generalità. Mentre la popolazione della Jungle aumenta.
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