Il papa delle periferie: mi sento a casa
Francesco è da ieri in Uganda per la seconda tappa del suo viaggio apostolico in Africa che si concluderà domani a Bangui — Repubblica Centrafricana — con l’apertura della porta santa che segnerà l’inizio del Giubileo della misericordia.
Ad accoglierlo venerdì pomeriggio all’aeroporto di Entebbe — a 40 km dalla capitale Kampala — c’erano il presidente Yoweri Museveni, personalità politiche e religiose oltreché uomini e donne di tutte le età ammassate lungo i cordoni del percorso verso il palazzo presidenziale.
Prima di lasciare il Kenya per l’Uganda il papa ha visitato in mattinata la grande bidonville ai margini di Nairobi, Kangemi (più di 100 mila i residenti): «Mi sento a casa qui».
Riferendosi all’«ingiustizia terribile dell’emarginazione urbana», «come non denunciare le ingiustizie che subite?» ha detto Bergoglio rivolgendosi agli abitanti, ai volontari e al clero nella piccola chiesa Saint-Joseph Travailleur, nel cuore di una baraccopoli dalle strade piene di buche, le fogne a cielo aperto e baracche fatiscenti a poche centinaia di metri dai compound residenziali. «Si tratta di ferite inferte dalle minoranze che si aggrappano al potere e alla ricchezza, che egoisticamente sperperano mentre una maggioranza crescente è costretta a fuggire verso periferie abbandonate, sporche e fatiscenti».
Un discorso, quello sulle periferie, che va a integrarsi a quello sull’ambiente del giorno prima dalla sede del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente con cui ha invocato un accordo globale sui cambiamenti climatici alla Cop21.
Dalla bidonville Francesco ha condannato «le nuove forme di colonialismo che fanno dei Paesi africani i pezzi di un meccanismo, le parti di un gigantesco ingranaggio e li sottomettono a diverse pressioni perché siano adottate politiche di emarginazione, come quella della riduzione della natalità». Inoltre «privare una famiglia dell’acqua, per pretesti burocratici, è una grande ingiustizia, soprattutto quando si lucra su questo bisogno», ha lamentato il papa denunciando la mancanza di accesso alle infrastrutture di base come bagni, fognature, illuminazione, strade, scuole, ospedali, centri per il tempo libero, lo sport, e l’arte. Aggiungendo che è un dovere di tutti garantire ai poveri nelle aree urbane l’accesso alla terra, a un alloggio e al lavoro.
Dopo Kangemi, dallo stadio Kasarani di Nairobi — gremito di gente — Papa Francesco ha esortato i giovani del Kenya a non cedere al dolce richiamo della corruzione (che pochi giorni fa ha portato a un rimpasto di governo). La corruzione «è come lo zucchero, dolce, ci piace, è facile». «Anche in Vaticano ci sono casi di corruzione» (con il chiaro riferimento ai recenti casi Vatileaks). «Ogni volta che mettiamo nelle nostre tasche, distruggiamo il nostro cuore, distruggiamo la nostra personalità e distruggiamo il nostro Paese. Per favore, non sviluppate quel gusto per quello zucchero che si chiama corruzione».
Il papa ha poi esortato i giovani a prendere posizione contro il tribalismo, invitando i presenti a tenersi per mano in simbolo di unità: «Siamo tutti una nazione». In Kenya dopo le elezioni del 2007 furono circa 1.200 le vittime causate da violenze interetniche.
E in riferimento alla minaccia terroristica (il Kenya ha subito diversi attacchi dal gruppo integralista somalo degli Al-Shabaab): «Se una giovane donna o uomo non ha lavoro, non può studiare, che cosa può fare? La prima cosa che dobbiamo fare per fermare un giovane dall’essere reclutato è l’istruzione e il lavoro».
In Uganda, a voler incontrare il papa — nel corso della giornata di oggi — c’è anche il presidente del Sud Sudan Salva Kiir, giunto nel Paese inaspettatamente senza aver precedentemente annunciato la visita.
Oltre a corruzione e diritti degli omosessuali (i gruppi Lgbt hanno fatto appello al pontefice affinché denunci le leggi omofobiche e le persecuzioni da parte della società civile), ci si aspetta che Papa Francesco si pronunci anche sulla situazione in Sud Sudan e le sue relazioni con il Sudan.
Il Sud Sudan — resosi indipendente dal Sudan nel 2011 — è afflitto dalla guerra civile dal dicembre 2013, quando una controversia politica tra Kiir e il suo vice Riek Machar è sfociata in un conflitto armato che ha riaperto linee di frattura etniche. Kampala ha inviato truppe intorno a Giuba — la capitale del Sud Sudan — per sostenere il governo del presidente Salva Kiir subito dopo gli scontri scoppiati con le truppe fedeli al vice presidente del Sud Sudan Riek Machar. Ed è stata proprio la loro presenza uno dei principali motivi di contesa alla base di prolungati negoziati di pace tra i due Paesi andati avanti nella capitale etiope Addis Abeba per quasi due anni.
Tra crescenti pressioni internazionali e la minaccia di sanzioni, Kiir e Machar hanno firmato un accordo di pace nel mese di agosto, in rispetto del quale il mese scorso l’Uganda ha annunciato l’imminente ritiro delle truppe dal Sud Sudan (con il plauso delle potenze regionali e occidentali, a scongiurare il rischio — come si temeva — che il coinvolgimento dell’Uganda potesse trasformare la lotta tra le due parti in un conflitto regionale).
Le associazione per la difesa dei diritti umani hanno accusato entrambe le parti di abusi e violenze alla base degli scontri tra il gruppo etnico dei Nuer cui appartiene Machar e quello dei Dinka di cui è membro Kiir. Il conflitto ha fatto più di 10.000 vittime e costretto più di 2 milioni di persone ad abbandonare le loro case.
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