Gli yazidi contro l’Is al via l’offensiva di Sinjar “Volevano cancellarci è la nostra vendetta”

Gli yazidi contro l’Is al via l’offensiva di Sinjar “Volevano cancellarci è la nostra vendetta”

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HANNO cominciato gli aerei americani e della coalizione alle 9 di sera di mercoledì, bombardando decine di postazioni dell’Is, che a Shingal e Tal Afar dispone degli armamenti pesanti più efficienti, per averli sottratti un anno e mezzo fa all’esercito iracheno in fuga. Alle 7 della mattina 7.500 peshmerga curdo-iracheni, combattenti curdosiriani del Ypg e curdoturchi del Pkk, e yazidi, un’armata di 20 mila, muovono l’attacco di terra. Devono misurarsi, oltre che col fuoco di artiglieria e di cecchini, con una sequela di autobombe suicide e una semina di mine e congegni esplosivi artigianali. Riguadagnano un villaggio dopo l’altro — macerie. Alle 10 e mezza sono entrati in città. Si combatte davvero casa per casa. Gli uomini dell’Is sono spesso forti combattenti, quasi sempre fanatici votati alla morte. Qui hanno di fronte persone che si battono per la propria terra, le proprie case e i propri morti. Hanno di fronte anche alcune delle bambine e delle ragazze yazide scappate o riscattate alle loro grinfie dopo violenze e umiliazioni indicibili, e però finalmente dette: yazidi e yazide che, come gruppi di cristiani, hanno deciso di restare e formare propri reparti dentro le forze armate curde.
Il sindaco di Sinjar, curdo yazida, Mahma Khalil, in esilio come il governatore di Mosul, dice: «Hanno sognato di cancellare il popolo yazida dalla carta geografica, hanno sbagliato». I dispacci della battaglia arrivano, dagli inviati e dai telefoni, pressoché minuto per minuto, alle tende di Dohuk, Zhako e degli altri grandi campi in cui le famiglie yazide aspettano da quindici mesi. All’una e 35 le forze curde (non ci sono militari iracheni nella battaglia, ma il Pentagono ha confermato la presenza di consiglieri militari americani con “un ruolo attivo”) tengono saldamente il villaggio di Gabara e da lì la strategica via di comunicazione, l’autostrada 47, fra la capitale siriana del califfato, Raqqa, e Mosul. Sono così tagliati i rinforzi dalla Siria, e aperta la via per l’offensiva futura su Mosul.
I morti nelle file dell’Is sono già decine, e la loro radio chiama a resistere, avvertendo che chi si ritira sarà giustiziato. Alle 3,50 del pomeriggio i peshmerga devono fermare un centinaio di famiglie yazide, donne e bambini, che volevano andare a riprendersi le loro case mentre infuria la battaglia. Più tardi il rappresentante di Ban Ki Moon per l’Iraq, Jan Kubis, dichiarerà che «entro tre-sei mesi l’Onu farà in modo che si compia il ritorno degli yazidi nelle loro case». In un villaggio arabo presso Hardan sono stati abbandonati 40 cadaveri dell’Is. In città, gli scontri sono più feroci soprattutto nei quartieri occidentali. Si contano 16 attacchi suicidi sventati. Alle 18, i morti dell’Is sono più di cento. All’obitorio di Mosul qualcuno ne conta altri 47. I comandanti curdi spiegano che in città le operazioni sono rallentate dalla miriade di congegni che incontrano sulla loro avanzata, e rendono impervio il lavoro degli sminatori. Un’ora dopo Sinjar è presa. Dalle moschee dei suoi centri l’Is in fuga diffonde appelli alle popolazioni perché scatenino la jihad. Il comandante peshmerga Sheikh Alo dichiara che una ritirata così rapida dell’Is era inaspettata, soprattutto per l’importanza strategica di Shingal.
Sinjar, Shingal in curdo, è il nome di una cittadina che aveva qualche decina di migliaia di abitanti, e della montagna che la circonda, nel Kurdistan iracheno alla frontiera con la Siria. Dai primi giorni dell’agosto 2014 è il nome di una tragedia e di un’epopea, che ieri ha forse, finalmente, vissuto il suo epilogo. Chi conoscesse la tragedia armena attraverso il gran romanzo di Franz Werfel, “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, avrebbe riconosciuto nel Sinjar il Mussa Dagh del popolo yazida. Migliaia di uomini trucidati, migliaia di bambine e donne rapite violate schiavizzate e vendute, decine di migliaia di vecchi donne e bambini fuggiti sul monte brullo e inospitale, se non per le grotte. Mosul era stata presa dal Califfato senza incontrare resistenza già da due mesi: la grande città e il suo petrolio e la sua diga. I peshmerga stessi avevano ceduto all’assalto su Sinjar, e la prima resistenza era venuta solo dai combattenti curdi siriani del Ypg e dai curdi turchi del Pkk. Solo allora, con i fuggiaschi braccati sulla montagna senza acqua né cibo né medicine, Obama ordinò l’intervento aereo che valse a evacuarne una gran parte — altre migliaia restavano in trappola. Il fronte dei peshmerga si ricostituì e riguadagnò terreno, soprattutto con la controffensiva del dicembre 2014. Ma il fronte si fermò, e l’Is teneva la città. I curdi del Pkk e del Rojava siriano rivendicavano un “cantone” di Sinjar affidato al loro controllo, irritando i curdi iracheni. I quali a loro volta continuavano a dividersi accanitamente e infantilmente attorno a rivalità di potere e di clan, finendo per subire un pellegrinaggio avvilente di mediatori veri o aspiranti, dagli americani ai governanti europei, allo stesso disgraziato governo iracheno, o agli emissari iraniani. E la riconquista di Sinjar e di Mosul, tante volte annunciata, era altrettante volte rinviata. Per Sinjar, fino a ieri.


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