Un mostro nato dalla paura

by redazione | 24 Ottobre 2015 10:56

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Intervista. La guerra in Iraq ha trasformato la maggioranza degli abitanti in carnefici e vittime. Gli unici eroi sono le donne e gli uomini che vivono con dignità la loro vita. Un’intervista con lo scrittore Ahmed Saadawi, autore del romanzo «Frankestein a Baghdad» pubblicato da e/o

Bagh­dad, inverno 2005, Sad­dam è caduto, l’occupazione ame­ri­cana si tra­scina da un paio d’anni, la guerra civile a colpi di auto­bomba e kami­kaze fa regi­strare ogni giorno nuove stragi. Lo strac­ci­ven­dolo Hadi Al-Attag che ha più fami­lia­rità con la bot­ti­glia che con i suoi simili, si aggira per le strade di una città resa spet­trale dal con­flitto per por­tare a ter­mine il com­pito sini­stro che si è dato: rac­co­glie e cuce tra loro resti umani per­ché è con­vinto che attra­verso que­sto nuovo corpo potrà resti­ture la dignità alle vit­time del ter­rore. Ma acca­drà qual­cosa che nep­pure lui poteva aspet­tarsi. Un’anima vagante, in attesa di sepol­tura, pren­derà pos­sesso di que­gli arti ina­ni­mati per dar­gli vita. La «crea­tura» ride­stata dal mondo dei morti ini­zierà così a ven­di­care quanti sono stati assas­si­nati, tra­sfor­man­dosi in giu­sti­ziere agli occhi di una popo­la­zione dispe­rata e alla ricerca di un qua­lun­que con­forto. Nel suo corpo Hadi ha riu­nito però sia le vit­time che i car­ne­fici, vale a dire anche ciò che restava degli autori di atten­tati sui­cidi e di kil­ler caduti men­tre ese­gui­vano le loro mis­sioni di distru­zione. Quell’essere ha per­ciò biso­gno di san­gue inno­cente per con­ti­nuare a vivere: da idolo degli abi­tanti dei quar­tieri popo­lari si tra­sfor­merà in breve tempo in un assas­sino san­gui­na­rio, le cui azioni effe­rate tra­sfor­me­ranno la vita quo­ti­diana della città in un inferno ancor più orribile.

Ispi­ran­dosi alla cele­bre opera di Mary Shel­ley, lo scrit­tore e gior­na­li­sta ira­cheno Ahmed Saa­dawi ha rac­con­tato la tra­gica realtà del suo paese in Frank­e­stein a Bagh­dad, Edi­zioni e/o (pp. 352, euro 18), un romanzo che affronta con grande forza, ma sapendo alter­nare l’ironia e il gusto del para­dosso al dramma e al rac­conto dell’orrore quo­ti­diano della guerra, il destino di un popolo e di una terra.

Una crea­tura che è il pro­dotto delle stragi quo­ti­diane, nel cui corpo con­vi­vono vit­time e car­ne­fici, che da eroe si tra­sforma in assas­sino: nel suo Frank­e­stein con­ver­gono i drammi della recente sto­ria ira­chena, da Sad­dam all’occupazione ame­ri­cana, fino al ter­ro­ri­smo fon­da­men­ta­li­sta. È così?

Il mostro è un’incarnazione della nostra società. O meglio, di tutte le con­trad­di­zioni che vi alber­gano. Nella ver­sione ori­gi­nale il suo nome cor­ri­sponde alla parola Shi­sma, che in arabo signi­fica «come si chiama», una scelta con cui volevo sot­to­li­neare l’ambivalenza degli ira­cheni di fronte alle vio­lenze, in par­ti­co­lare a quelle inter­con­fes­sio­nali. Per que­sto in lui coa­bi­tano le vit­time e gli assas­sini. Rap­pre­senta il pro­dotto delle nostre paure, dei nostri pre­giu­dizi e della nostra ipo­cri­sia. È il sim­bolo di quel desi­de­rio di ven­detta pre­sente in cia­scuno di noi che ali­menta una vio­lenza senza fine.

Quando un ira­cheno uccide un altro ira­cheno non è mai solo a pre­mere il gril­letto. Ha die­tro di sé decine di altre per­sone che par­te­ci­pano sim­bo­li­ca­mente a quell’atto: coloro che inci­tano all’odio, quelli che chie­dono ven­detta. È di que­sti assas­sini invi­si­bili che parla soprat­tutto il mio romanzo.

Un cri­tico di «Asharq Al-Awsat», l’influente quo­ti­diano arabo pub­bli­cato a Lon­dra, ha para­go­nato il suo libro a «Crash» di James Bal­lard, trac­ciando un’analogia tra la crea­tura di Bagh­dad e lo scienziato-teppista Vau­ghan, che si aggira come un «angelo osses­sivo» per le super­trade e soste­nendo come in entrambi i romanzi è inu­tile cer­carvi trac­cia del bene e del male.…

È dav­vero dif­fi­cile giu­di­care luci­da­mente quanto sta avve­nendo nel mio paese e, in ogni caso, mi sarebbe impos­si­bile indi­care una parte coin­volta nel con­flitto, o meglio nei con­flitti che vi sono in corso, che abbia più ragioni o torti delle altre. Ciò non signi­fica che ogni ira­cheno sia una vit­tima inno­cente o un cri­mi­nale assas­sino: cia­scuno è in parte vit­tima e in parte car­ne­fice. Tutti sono a vario titolo respon­sa­bili di quanto è acca­duto e con­ti­nua a suc­ce­dere e, per que­sta via, nes­suno può dav­vero con­si­de­rarsi inno­cente. In que­sto con­te­sto, posso solo dire che i soli «eroi» di Bagh­dad sono le per­sone che cer­cano di con­durre una vita digni­tosa mal­grado l’inferno che li circonda.

Alcuni dei pro­ta­go­ni­sti vivono nel vec­chio quar­tiere popo­lare di Bata­ween, dove hanno con­vis­suto a lungo sciiti e sun­niti, ebrei e cri­stiani, immi­grati egi­ziani e suda­nesi. Cosa è rima­sto di tutto ciò?

Bagh­dad ha una sto­ria mil­le­na­ria die­tro di sé, è stata una delle culle della civiltà medio­rien­tale e una capi­tale impe­riale. Per secoli qui hanno vis­suto paci­fi­ca­mente per­sone di reli­gione e tra­di­zioni diverse. Solo nel corso dell’ultimo decen­nio tutto ciò si è tra­sfor­mato in una sorta di ben­zina per la guerra civile stri­sciante ancora in corso: oggi ogni alte­rità è per­ce­pita come una minac­cia e ogni diver­sità come un nemico da abbat­tere. Per­ciò di quel pas­sato resta sem­pre di meno, anche se la città non ha perso del tutto que­sto suo pro­filo, mal­grado le stragi e gli omi­cidi quo­ti­diani. Resta sem­mai celato, nasco­sto die­tro le mura di casa.

Pur non rinun­ciando a tratti anche all’umorismo, que­sto romanzo si misura soprat­tutto con l’orrore che per­vade la vita degli ira­cheni. In que­sto senso, come giu­dica la «nar­ra­tiva» della morte messa in scena dalla pro­pa­ganda dell’Isis?

Quello che fanno con i loro video è all’opposto di quello che cerco di fare io con la scrit­tura. Scri­vendo si con­ti­nua a sognare ad occhi aperti e que­sto quale che sia la situa­zione che si ha intorno. Gran parte degli eventi descritti nel libro, atten­tati, stragi, omi­cidi effe­rati, sono ispi­rati a fatti di cro­naca real­mente acca­duti. Men­tre scri­vevo non c’è mai stato nes­sun com­pia­ci­mento nel rie­la­bo­rare ciò che vedevo in chiave let­te­ra­ria. Al con­tra­rio, descri­vere l’orrore quo­ti­diano di Bagh­dad rap­pre­senta un pos­si­bile anti­doto alla vio­lenza, un modo per cer­care di cam­biare le cose. Restare pas­sivi, essere dei sem­plici spet­ta­tori equi­vale ad un tacito inco­rag­gia­mento alla vio­lenza. Ed è que­sto ciò che vuole l’Isis.

Lei cita spesso Ernest Heming­way e Gabriel Gar­cía Már­quez come fonte di ispi­ra­zione, quanto c’è di que­ste sue pas­sioni let­te­ra­rie in «Frank­e­stein a Baghdad»?

Cerco di ispi­rarmi a que­sti autori per­ché sono stati anch’essi gior­na­li­sti prima di diven­tare scrit­tori. Credo che la nar­ra­tiva sia più adatta del gior­na­li­smo per espri­mere l’esperienza emo­tiva di vivere in una città in cui l’orrore è diven­tato la norma. Di Heming­way ammiro soprat­tutto la prosa essen­ziale ed austera che con­ti­nua ad avere una grande influenza nella let­te­ra­tura araba con­tem­po­ra­nea. Quanto a Már­quez, si direbbe che in molti aspetti del suo lavoro si respiri qual­cosa di orien­tale, come nel modo fan­ta­stico scelto per descri­vere l’America Latina. Soprat­tutto è stato uno dei mae­stri del romanzo post­mo­derno e il mio libro è stato pre­sen­tato da più di un recen­sore pro­prio come un effi­cace romanzo arabo post­mo­derno: molti hanno scritto che ho fatto ricorso al rea­li­smo magico per mesco­lare la fic­tion alla realtà di morte della mia città.

Per scri­vere il romanzo si è tra­sfe­rito per lun­ghi periodi nella zona del Kur­di­stan ira­cheno, «per cer­care mag­giore tran­quil­lità lon­tano dalle bombe di Bagh­dad». Cosa signi­fica essere scrit­tori nell’Irak di oggi?

Ho scelto di con­ti­nuare a vivere a Bagh­dad mal­grado la guerra per­ché qui c’è tutta la mia vita. Non è facile, devo ammet­terlo: l’anno scorso un kami­kaze si è fatto esplo­dere in uno dei caffé che sono solito fre­quen­tare solo un’ora dopo che ero uscito e ha ucciso molti miei amici. Ma non ci sono solo i peri­coli e la paura. Credo che cer­care di scri­vere in una simile realtà rap­pre­senti anche una sorta di pri­vi­le­gio. Sento la respon­sa­bi­lità di essere un osser­va­tore impar­ziale di quanto sta suc­ce­dendo, ho infatti la pos­si­bi­lità di rac­con­tare ciò che vedo e di espri­mere la mia opi­nione al riguardo e chi legge i miei libri, i arti­coli o segue quello che pub­blico sui social net­work, sem­bra dare molto peso a quanto dico. Anche per que­sto non ho alcuna inten­zione di andar­mene, anche se vivo un con­flitto inte­riore, tra il mio biso­gno di scri­vere e la paura della morte che non mi abban­dona mai.

Dalle sue parole si sarebbe por­tati a pen­sare che la vita cul­tu­rale di Bagh­dad sia soprav­vis­suta a quin­dici anni di guerra.

Potrebbe sem­brare un para­dosso, ma è così. La scena cul­tu­rale è ancora molto vivace. Non parlo solo della let­te­ra­tura, ma anche della musica, dell’arte e del tea­tro. Mal­grado la guerra, o forse pro­prio a causa di essa, c’è una gran voglia di fare tante cose. Le fac­cio un esem­pio: c’è un mio amico vio­li­ni­sta che insieme ad altri musi­ci­sti orga­nizza con­certi improv­vi­sati nei luo­ghi in cui ci sono stati degli atten­tati: com­bat­tono la morte attra­verso la musica che per loro è vita. Scrit­tori e autori di tutto il paese arri­vano a Bagh­dad per­ché sanno che qui è ancora pos­si­bile tro­vare un edi­tore o met­tere su una pièce. E non si tratta di un feno­meno che riguarda sol­tanto un’élite. Nel cen­tro della città c’è ancora la «via dei libri», la Muta­nabbi Street, una strada lun­ghis­sima che ospita su cia­scun lato libre­rie e ban­ca­relle di libri, dove si può tro­vare tutto ciò che viene pub­bli­cato nel mondo arabo. Ed è una strada sem­pre affol­lata, mal­grado le bombe.

Il suo alter-ego nel romanzo, Mah­moud il gior­na­li­sta, afferma che «tutte le tra­ge­die che stiamo attra­ver­sando sono ricon­du­ci­bili ad un’unica causa: la paura». Pensa che l’Irak potrà vincerla?

Quando ho ter­mi­nato il libro, oltre tre anni fa, le cose sem­bra­vano sul punto di miglio­rare. Poi è entrata in scena l’Isis, la guerra si è estesa anche alla Siria, è cre­sciuta l’influenza nega­tiva dell’Iran e dell’Arabia Sau­dita e non solo la situa­zione ira­chena, ma quella dell’intero Medio­riente non ha fatto che pre­ci­pi­tare. Mal­grado cer­chi di con­ser­vare l’ottimismo, devo ammet­tere che la situa­zione è peg­gio­rata e che invece di vin­cere l’orrore e la paura ne siamo ancora di più pri­gio­nieri e non so dire dav­vero quando tutto que­sto potrà finire. Oggi, gli ira­cheni non guar­dano ad un futuro lon­tano: pos­siamo par­lare solo di giorni e mesi, non di periodi più lunghi.

SCAFFALI

GIOR­NA­LI­STA IN PRIMA LINEA E AUTORE DI FUMETTI.
LA RESI­STENZA A STRI­SCE NELLA CAPI­TALE IRACHENA

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Primo ira­cheno ad aggiu­di­carsi il pre­sti­gioso «Inter­na­tio­nal Prize for Ara­bic Fic­tion», il più impor­tante rico­no­sci­mento per la let­te­ra­tura del mondo arabo, che gli è stato attri­buito lo scorso anno ad Abu Dhabi per il romanzo «Frank­en­stein a Bagh­dad», Edi­zioni e/o (pp. 352, euro 18,00), tra­du­zione di Bar­bara Teresi, Ahmed Saa­dawi è nato nel 1973 nel quar­tiere a mag­gio­ranza sciita di Sadr City, nella peri­fe­ria di Bagh­dad. Di for­ma­zione laica, figlio di un pic­colo fun­zio­na­rio comu­nale, Saa­dawi ha lavo­rato a lungo come gior­na­li­sta, per testate e tv locali e per il canale arabo della Bbc — per il quale ha coperto gli anni più duri della guerra civile tra il 2006 e il 2008 -, prima di dedi­carsi com­ple­ta­mente alla poe­sia, alla scrit­tura e al lavoro nel mondo dei comics: un suo fumetto è stato pub­bli­cato nel 1999 sulla rivi­sta egi­ziana «Akh­ba­rak». Autore di altri due romanzi e di una rac­colta di poe­sie, nel 2010 è entrato a far parte del pro­getto Beirut39 che riu­niva i mag­giori talenti della nar­ra­tiva araba under 40. Spo­sato e padre di quat­tro figli, ha spie­gato di aver uti­liz­zato gran parte dei 50 mila dol­lari otte­nuti con l’«Arabic Boo­ker», insieme alla tra­du­zione del suo libro in lin­gua inglese da parte di una casa edi­trice liba­nese, per pagare i debiti e siste­mare i conti della sua famiglia.

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