L’attacco aereo all’ospedale di Kunduz sovraffollato di feriti dopo la battaglia che aveva visto i Taleban riconquistare la città e prenderne il controllo sopraffacendo le truppe governative- notizia che neppure aveva raggiunto il pubblico americano – ha il sapore disperante, eppure prevedibile, del “deja vu”, della replica di tragedia già viste. La cronistoria della spedizione punitiva contro il regime che aveva accolto e protetto i comandi di Al Quaeda negli anni ‘90 è punteggiata di episodi come questo dell’ospedale di Kunduz, prodotti non della crudeltà, della stupidità militare, della stoltezza di bombe che non possono mai essere più “intelligenti” di chi le lancia, ma figli dell’inevitabile degenerazione di guerre che dopo l’illusione iniziale della “missione compiuta” si trasformano in interminabili e controproducenti “missioni incompiute”.
L’esistenza di quell’ospedale costruito e gestito da “Medici Senza Frontiere” a Kunduz era ben nota a tutti, civili, guerriglieri, truppe regolari e comandi delle Forze Aeree. Ma l’“intelligence”, le informazioni raccolte da collaborazionisti, spie, doppio o triplo giochisti, da personaggi che in queste situazioni proliferano spesso in cambio di pochi dollari, avevano segnalato che quella struttura sanitaria era stata assalita e conquistata dai Taliban ed era divenuta una base di combattimento. Queste informazioni, che potevano avere o non avere un fondamento, hanno fatto alzare in volo i cacciabombardieri americani della Coalizione e partire i razzi che lo hanno centrato, uccidendo medici, infermieri, personale afgano e pazienti di ogni parte, perchè le strutture di Msf, assistono tutti i feriti, senza chiedere documenti o appartenenze. Un comportamento che il governo, se così lo si può chiamare, di Kabul aborre.
Siamo lontani, geograficamente e temporalmente, dalla massacro di MyLai, del villaggio sudvietnamita sterminato nel 1968 dai fanti del tenente William Calley che fece uccidere almeno 500 abitanti nel dubbio che fossero tutti agenti di supporto per i Vietcong, ma siamo vicinissimi a quella palude di operazioni di “counterinsurgency”, di antiguerriglia, nelle quali gli eserciti regolari inesorabilmente si fanno risucchiare. E’ un processo visto e rivisitato troppe volte per non essere ormai divenuto un caso di scuola: si parte dall’arrivo apparentemente trionfale dei liberatori. Prosegue con la formazione di governi e amministrazioni locali che fingono di avere legittimo potere nazionale e sono accreditate dagli occupanti in mancanza di altro. Si sgretola nella constatazione che le forze armate e di sicurezza costruite in fretta non hanno nessuna affidabilità. Degenera infine nella caccia “search and destroy”, nell’inseguimento di capi, sottocapi, cellule, ras ribelli e nella illusione che la forza aerea, gli aerei e gli elicotteri guidati da satelliti e indirizzati da improbabili “agenti” sul posto possano domare la ribellione, senza sporcare stivali nella polvere.
E tutto questo copione desolatamente scontato viene rappresentato sempre più lontano dall’attenzione e dalla coscienza della nazione più impegnata a interpretarlo, in questo caso gli Stati Uniti che da tempo hanno rimosso l’Afghanistan, e la piccola, sporca guerra in atto laggiù, la più lunga nella storia della nazione, dalle loro preoccupazioni, oggi concentrate su altre aree del mondo. Le puntuali notizie di bombardamenti di ospedali, ristoranti, feste di matrimonio, cortei funebri, scambiati per movimenti o centrali operative di ribelli passano nella indifferenza di una nazione che ha lasciato quasi tre mila morti, su quel terreno, 100 miliiardi di dollari di tesoro nazionale e ora 10 mila mila vivi in uniforme per fingere di addestrare e assistere forze locali refrattarie all’addestramento e al combattimento. Come già gli eserciti fantoccio di Saigon o di Baghdad.
Nell’ultimo sondaggio nazionale importante condotto nel 2013, l’82%, una proporzione plebiscitaria, era ormai del tutto contrario a quella presenza americana in Afghhanistan che lo stesso 80% aveva applaudito quando George W Bush aveva lanciato piccoli reparti speciali e gruppi della Cia (ma mai le grandi unità militari di un Pentagono che non volle assumersene il peso e ne diffidava) verso Kabul. Nel 2015, nessun sondaggio è stato più condotto e nei dibattiti televisivi fra i candidati alla Casa Bianca, dal mattatore Donald Trump alle comparse marginali, la parola “Afghanistan” è mai stata neppure nominata.
Il Presidente Obama resta fedele alla promessa di ritirare anche l’ultimo soldato americano, entro il 2016, per poter dire, nel momento dell’addio alla Casa Bianca, di avere mantenuto la parola data nel 2008, quando, prima della catastrofe finanziaria ed economica di quell’autunno, Afghanistan e Iraq sembravano nel cuore delle preoccupazione nazionali. Potrà dire di avere rispettato un impegno del quale ormai importa niente a nessuno, oltre alle decine di migliaia di soldati, reduci e famiglie che ancora sono prigionieri dell’ingranaggio di queste guerre “ asimmetriche”, sempre troppo facili da lanciare e sempre impossibili da chiudere, dove il cammino trionfale del primo giorno lentamente degenera in sabbie mobili. Quelle paludi nelle quali ora si sta avventurando Putin in Siria, come lo ha avvertito Obama, uno che ora se ne intende.